Sembri estremamente rilassata, è una mentalità che stai adottando per affrontare al meglio questi momenti per te nuovi?
Penso di sì, non ho mai fatto così bene in un torneo e che vinca o che perda non mi sono mai sentita così felice. È una situazione dove in qualsiasi modo mi sento una vincitrice: sono estremamente grata di poter giocare a tennis come mestiere per guadagnarmi da vivere, andare in campo in impianti così belli come a Indian Wells, o come a Miami. Pensare che la cosa più brutta a cui possa andare incontro sia perdere una partita, non so, non è così terribile… Magari mi capiterà di perdere alcune volte, ma capiterà anche che in altri momenti vincerò. Quello che voglio ora è essere felice di fare quello che faccio, avere una mentalità positiva, guardare tutto con una buona percezione delle cose sia che vinca sia che perda.
Ti ho sentito dire che vincere il WTA 125k di Newport Beach ti ha dato la fiducia necessaria ad affrontare un evento così importante come un Premier Mandatory, però c’è una differenza enorme nel valore dei due tornei. Che molla è scattata nella tua mente?
Penso che molto spesso noi vediamo i grandi tornei come quelli dove ci sono soltanto le grandi giocatrici, le più più forti, quelle che non potrai mai trovare in quelli di livello più basso come un WTA 125k. Eppure io a Newport Beach ho affrontato in finale Sofya Zhuk, che a Indian Wells ha fatto il terzo turno battendo un’ottima giocatrice come Alizé Cornet e una top-20 come Magdalena Rybarikova, questo per darti un piccolo esempio di quanto fosse alto il livello. Anche Amanda Anisimova che ha battuto Petra Kvitova, o Sachia Vickery che ha fatto lo stesso con Garbine Muguruza… Erano tutte lì, il livello è veramente alto anche se stiamo parlando di un WTA 125k. È incredibile come la differenza al momento tra l’essere una giocatrice in top-100 ed essere fuori sia così sottile. Quando vai a disputare un torneo, uno qualsiasi, devi mostrare lo stesso rispetto verso quelle giocatrici che considereresti più forti come per quelle che magari sono considerate più deboli. Poi ovvio, è incredibile che stia facendo così bene anche in un Premier Mandatory, perché è uno scenario completamente diverso rispetto a un WTA 125k, però è bello vedere le stesse facce contro cui ho giocato nei livelli inferiori. Lo scorso novembre ho giocato contro Sachia in un ITF da 25.000 dollari. Confrontarlo con un Premier Mandatory è impossibile: è incredibilmente più piccolo e meno importante, però mostra come ci sia un margine veramente ridotto tra chi è già nelle zone alte della classifica e chi è appena dietro. Il nostro livello è alto, e questo mi ha dato una fiducia enorme.
Dove risiede questa differenza che dici essere così sottile?
Mah, diciamo che all’inizio non è per nulla facile. Se tu vinci un torneo da 25.000 dollari prendi 50 punti, ma se tu vinci 2 partite a questo livello ne prendi 65. Dunque, è semplice: 5 contro 2, per un guadagno di punti che è persino inferiore. La cosa più importante, e più complicata, è emergere, prendere i punti necessari a salire nel ranking e a programmare meglio tutta la stagione. Se le top players perdono uno o due primi turni consecutivi non è un dramma, perché poi basta indovinare un paio di partite nei tornei importanti e tutto si sistema. Non voglio dire che sia più semplice mantenere il ranking al top, ma una volta che sei lassù puoi ragionare meglio sulla situazione e mantenere quello status a lungo, come hanno fatto tante giocatrici nel corso dell’ultimo periodo. È molto importante l’inizio della carriera: alcune persone riescono subito ad arrivare al top, o anche in top-100, altre invece no, o hanno bisogno di più tempo. Questo è il tennis. Anche io, quando ero al college, e dovevo approcciare il professionismo, mi sentivo dire da tante persone quanto fosse difficile fare questo step però fa parte del gioco. Quando affronti avversarie più forti di te sai che avrai da lavorare tanto, ma sai anche che starai giocando per un ranking, per dei soldi, e ci saranno molte più cose su cui ragionare. Questo secondo me porta le giocatrici a essere sempre lì con la testa, a non mollare mai, cercare di fare sempre meno errori e ad aumentare magari la percentuale di prime in campo. Forse un aspetto importante che divide una top-10, o una top-20, e le altre è proprio che il loro servizio è costruito per fare maggiormente la differenza nella costanza di rendimento: un colpo efficace, difficilmente attaccabile e costruito per avere un’alta percentuale.
Sei diventata professionista a tutti gli effetti a fine 2016, dopo essere uscita dal college. Avevi avuto quest idea anche prima di frequentare gli studi universitari?
Son sincera: ero veramente brava da junior. Il mio problema era che la mia famiglia non aveva la disponibilità economica per finanziare la mia crescita, dunque non potevo disputare i tornei più importanti come gli Slam. A quel punto la soluzione migliore per me era il college. Non ho mai avuto un supporto finanziario da parte di qualcuno, non ho mai avuto la stessa fortuna di altre giocatrici che sono arrivate in questo periodo. Per questo avevo capito che il college era la soluzione migliore che potessi fare in quel momento della mia vita ed effettivamente mi ha aiutato tantissimo: ho sviluppato molto il mio gioco grazie al fatto che nell’università della Virginia avevo degli allenatori, Mark Guilbeau e Troy Porco, che fin dall’inizio mi hanno spinto tantissimo. Avevo pensato a fare un tentativo nel mondo del professionismo, ma alla fine il college era un’ancora molto importante perché sennò sarei stata da subito sotto un enorme stress dal punto di vista economico. Come dicevo i miei genitori non avevano proprio soldi per aiutarmi, io non avendo fatto l’attività junior avevo zero esperienza quando ho cominciato…
Eppure in meno di due anni sei già in top-100.
Sì, vero, ma molto di questo è grazie alle tante persone che mi sono vicine e credono ciecamente in me. E questo è un altro aspetto fondamentale: credere, avere fiducia in se stessi. Quando ho giocato allo US Open nel 2014 era la mia prima vera esperienza tra le grandi ed era tutto così strano. Ero ancora al college e non avevo ancora chiara l’idea se sarei veramente diventata una professionista, eppure ho vinto una wild-card, quella riservata alla vincitrice del campionato collegiale, e sono stata sorteggiata contro la numero 2 del mondo, che allora era Simona Halep. Pazzesco, e ci vinsi un set. Ricordo ancora che nei giorni successivi a quel match cominciai sempre più a pensare all’idea del tennis come lavoro e mi dissi che in caso avrei fatto tutto il possibile per arrivare anche solo in top-100.
Ti ha dato un qualche vantaggio dare questa priorità allo studio?
Penso che il college sia estremamente utile anche solo per la conoscenza che ti offre e per la capacità di affrontare le varie situazioni della vita, come anche il tennis con un’ottica diversa. Anche se non diventerai bravissimo a tennis, ti pone una visione diversa nella tua mente. Ti permette di pensare diversamente: la prospettiva di carriera che i giocatori di college possono condividere quando diventano professionisti è molto diversa rispetto a quella di chi ci prova diventando professionista a 14 anni. L’esperienza di vita è completamente diversa. L’educazione è qualcosa di veramente importante e per me, se potessi, consiglierei a chiunque di frequentare il college perché mi ha dato tanto anche in vista del futuro: quando avrò finito col tennis, grazie al college penso che potrei avere tante porte aperte per nuove esperienze.
Fare tennis a livello collegiale vuole dire essere parte di un team, che ricordi hai di quell’esperienza?
Penso che quella parte sia piuttosto unica. Mettiamo da parte quando ci sono le competizioni nazionali, però un tennista nel corso della sua carriera gioca per se stesso, quindi c’è proprio questa sensazione di essere solo e puoi perdere un po’ di vista quello che devi fare. Quando invece hai dei compagni con cui lavorare, con cui condividere dei sogni… È come una scarica d’adrenalina: sei parte di un team, è probabilmente una delle esperienze più forti che potrai avere nella tua vita. Essere in un team ti fa capire che non puoi pensare solo per te. Io per esempio credo di poter lavorare meglio quando sono con il mio team, ora, proprio perché ho avuto quell’esperienza al college e credo che questo ti aiuta tantissimo a non essere, per così dire, egoista perché impari come lavorare con le altre persone, come operano le altre persone, come migliorare certi tuoi errori o correggere quelli degli altri. Sono tutte abilità di cui abbiamo bisogno e che bisogna acquisire.
Quando è stata invece la prima volta che hai preso contatto col tennis?
Probabilmente quando avevo 3 anni. All’inizio non mi piaceva, non giocavo più di tanto, almeno finché non ho compiuto 7 anni. Ho fatto altri sport, però poi il tennis mi ha preso sempre più. Per il resto ho provato tantissimi sport: nuoto, ginnastica, ballo, calcio… Tutte cose che non hanno funzionato.
Finito questo periodo qualcosa per te potrebbe cambiare, se non altro come prospettive. Ci stai già pensando?
No, non granché. Se ci sarà davvero un effetto sulla mia vita sarà positivo, dunque per me non può che essere un piacere. Non è una cosa che potrò eventualmente controllare, però son sincera: se anche non dovesse cambiare granché, e che magari da qui in avanti ci saranno più sconfitte che vittorie, sarei comunque molto felice di quello che sto facendo. In più le opportunità in questo sport sono infinite, noi atleti giochiamo circa 30 tornei all’anno per cui non c’è veramente pressione o pensieri su quello che potrà avvenire da adesso in poi. Sono però curiosa di vedere quali occasioni mi si presenteranno da adesso in avanti.
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