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WTA Best of 2017: da Kerber a Sharapova, la top-10 dei match più belli

Gavrilova, prima gioia


10. A. Kerber b. Ka. Pliskova 7-6(5) 7-5, WTA Premier Tokyo, QF

Angelique Kerber ha vissuto un anno sportivamente terribile, precipitando da numero 1 a numero 21. In tanti l’hanno giudicata come la numero 1 più scarsa di sempre, o tra le più immeritevoli, ed il giudizio era un po’ troppo severo: mancavano le vittorie a causa di momento personale gestito male, il rovescio della medaglia di un traguardo speciale raggiunto a quasi 29 anni, ma erano anni che la tedesca giocava al livello delle primissime. Innumerevoli le partite di rilievo dal 2012 a oggi, molte delle quali contro Victoria Azarenka e Maria Sharapova.
Il suo nome è, nonostante in tanti le riconoscano unicamente qualità di difesa e contenimento, costantemente in questa categoria: sa essere solida da fondo campo, ma vederla nei periodi migliori muovere costantemente il gioco, creare trappole negli scambi (probabilmente la miglior giocatrice del circuito a giocare passanti) e a girare i punti crea un ottimo mix con quasi tutte le giocatrici. Non fa eccezione Karolina Pliskova, contro cui si ricordano le due finali vinte nel 2015, lo US Open del 2016 e quel match di quarti di finale a Tokyo che ad oggi potrebbe passare in sordina, ma fu una delle due occasioni nel 2017 dove Kerber seppe esprimere un ottimo livello per diversi incontri. Quel giorno le due diedero vita ad un bellissimo braccio di ferro con 23 game consecutivi senza break, fatto abbastanza raro persino per il circuito maschile, figuriamoci per il femminile.
Il livello è andato via via alzandosi e la difesa dei propri turni di battuta da parte della tedesca, nella seconda metà della prima frazione, fu eccellente: 3-4 15-40, da lì un dritto vincente dei suoi, uno smash da dietro la linea di fondo, smorzata, servizio vincente; sul 4-5 15-30 ancora due dritti vincenti. Il tutto è culminato in un tie-break dove la tedesca fu quasi perfetta, se non che alla fine non fu lei a chiudere ma sciupò l’occasione sul 6-4 raccogliendo comunque il parziale dopo un doppio fallo dell’avversaria. Nel secondo le occasioni per entrambe di strappare una battuta aumentavano, ma allo stesso modo aumentava il coraggio di chi serviva nel neutralizzare ogni chance, soprattutto con colpi vincenti. Chi stava soffrendo di più era Karolina, che pagava tantissimo i continui spostamenti lungo il campo. Vedere il dritto della tedesca si capisce subito che con quel colpo potrebbe palleggiare una vita e più e non sbagliare mai, trovare punti diversi del campo e far fare i chilometri a chi è dall’altra parte della rete. 5 le palle break annullate dalla ceca sull’1-2 nel secondo set, ma nulla ha potuto sulle altre 5 concesse sul 5-6, nell’unico momento dove regalò qualche punto di troppo nelle fasi iniziali (ancora c’è nella mente il dritto sul 15-30 messo largo).

9. D. Gavrilova b. D. Cibulkova 4-6 6-3 6-4, New Haven, finale

Tutto quello che ci si può attendere da due delle giocatrici più valorose, tenaci, indomite. Due tenniste le cui carriere non potranno mai fare affidamento sulla solidità dei loro colpi di inizio gioco, ma che a lungo andare hanno trovato (o troveranno) le soddisfazioni più importanti proprio grazie al loro carattere, oltre che ai vari colpi vincenti che sanno generare. La “vera” carriera di Gavrilova è cominciata 8 anni dopo quella di Cibulkova (2016 contro 2008) e la strada intrapresa sembra quella, seppure forse paliamo di una giocatrice più completa, non per nulla fu numero 1 a livello junior e medaglia d’oro alle Universiadi di Singapore 2010. Come Cibulkova, l’australiana di origine russa ha impiegato un po’ prima di sbloccarsi nella casella dei tornei vinti: 3 sconfitte consecutive per la slovacca, 2 per Daria che in stagione aveva già perso in 3 set quella di Strasburgo contro Sam Stosur in una giornata che poteva diventare storica perché in caso di vittoria avrebbe certificato un passaggio di consegne dopo 450 settimane di leadership per l’ex top-10.
Così non fu. Gavrilova vinto il primo set si sciolse mentalmente sul finire del secondo e pagò nel terzo l’inerzia di una partita che stava lentamente girando. A New Haven invece costruì una vera impresa, rimontando un set di ritardo e dando una netta sterzata nella seconda metà del secondo con 4 game consecutivi dal 2-3 al 6-3.
I ritmi erano molto alti già dai primi punti del match, ma mancava ancora precisione per entrambe: Cibulkova era riuscita ad incamerare il set per 6-4 confermando fin lì una settimana impeccabile, la prima vera dall’inizio della stagione dopo il brusco impatto con la pressione di una top-5, con le prime cambiali pesanti e le prime delusioni, i problemi fisici al polpaccio e al polso che hanno reso nulli i primi 6 mesi. Stava colpendo bene, creava spesso l’occasione per chiudere i punti (cosa che le riesce raramente quando le cose non girano al meglio) e sembrava avviata al primo titolo della stagione quando Gavrilova ha avuto quell’impennata e ha rimesso tutto in equilibrio. Il set decisivo fu fantastico: finalmente assistevamo al vero scontro, testa a testa tiratissimo a suon di accelerazioni, difese (soprattutto dell’australiana), scambi lunghi e clima esplosivo. Cibulkova ha dato il massimo sforzo nella fase centrale, giocando un gran game in risposta sul 3-3 ma non riuscendo ad allungare con il servizio a disposizione. Gavrilova, a 2 game da una nuova sconfitta, è risalita punto dopo punto e sul 5-4 ha preso di mira l’angolo alla destra della sua avversaria: risposta vincente per il 15-40, dritto incrociato stretto in corsa per il terzo match point (punto della partita) e nuovo dritto, stavolta all’incrocio dal centro del campo.
L’esultanza è tra le cose più spontanee, pure e contagiose che ci sono state in tutto il 2017.

Vesnina ribalta le gerarchie


8. L. Siegemund b. K. Mladenovic 6-1 2-6 7-6(5), Stoccarda, finale

Un qualunque torneo che vede ai nastri di partenza Angelique Kerber (numero 1 fino al giorno prima dell’inizio e oltretutto in casa), Maria Sharapova (al rientro dopo tutta la vicenda doping, le critiche, le pagine scritte con opinioni più o meno equilibrate di varie giocatrici, l’attesa spasmodica per il suo match d’esordio), Agnieszka Radwanska, Svetlana Kuznetsova, Garbine Muguruza, avere una finale con in campo Laura Siegemund e Kristina Mladenovic, senza voler parlare di “downgrade”, potrebbe sembrare una sfortuna. Invece il torneo in questione è Stoccarda, che oltre a godere dell’appoggio di un’azienda come la Porsche per qualche ragione casca sempre in piedi. Anche quest anno, con tutta l’attesa che c’era, hanno brindato a un’edizione straordinaria: la storia di Siegemund è di quelle che per loro vale oro essendo di Fidelstadt, cittadina a 20 minuti di macchina dalla Porsche Arena e dove un anno fa per la prima volta si mise in mostra con un’incredibile finale battendo Simona Halep, Roberta Vinci e Agnieszka Radwanska, tre top-10 (le prime vittorie in carriera). Dodici mesi dopo, partita nell’ombra visti i pezzi da 90 in gioco, si è ripetuta: ancora Halep, poi Svetlana Kuznetsova e Karolina Pliskova. Altre tre top-10 battute, ancora in finale. E dire che poteva tranquillamente non giocare visto che non aveva la classifica necessaria (il cut off è sempre molto alto da quelle parti) e dopo l’invito a Sharapova la federazione tedesca decise di tenerne una da assegnare all’ultimo momento e la decisione sarebbe nata anche dal volere del capitano tedesco, Barbara Rittner: il weekend subito prima si giocava la Fed Cup e se una singolarista designata era Kerber, l’altra sarebbe stata scelta tra Julia Goerges e Siegemund. Chi non otteneva il posto avrebbe però avuto una wild-card nel torneo che cominciava il lunedì. La prima fu l’eroina della sfida contro l’Ucraina, la seconda prese le copertine dei giornali 8 giorni più tardi.
Mladenovic invece era nel momento migliore della sua stagione: tante vittorie, tanti piazzamenti importanti e il primo titolo a San Pietroburgo. Il cammino a Stoccarda fu ottimo: vittoria netta contro Kerber e Suarez Navarro, poi l’impresa contro Sharapova in semifinale nonostante tutte le voci e gli insulti che stavano arrivando in quei giorni alla francese dai fan della russa, circostanza che avevamo anche provato a chiedere alla stessa Mladenovic in un’intervista esclusiva, ma che anche comprensibilmente (a meno di 24 ore dalla sfida contro la russa) non ha voluto inquadrare rimanendo sul vago. La finale aveva tutto per essere uno dei match più belli della stagione e se lo piazziamo all’ottavo posto è solo perché i primi due set furono rapidi e con pochissimo equilibrio (senza che chi comandava le operazioni mettesse in campo il suo massimo livello). Il terzo invece fu qualcosa di difficile da raccontare al meglio se non si era presenti: la tensione era esagerata, la qualità del gioco finalmente ai massimi. Entrambe attaccavano senza sosta, smorzavano, venivano a rete, muovevano il gioco lungo tutto il campo e deliziavano il pubblico con scambi di altissimo valore. Oltre a questo però tra le due non sembrava correre tanta simpatia: Mladenovic era messa a dura prova da un’avversaria che arrivava a contestare ogni singolo servizio, marcando e rimarcando segni poi smentiti regolarmente dall’arbitro, e in risposta doveva attendere ben oltre il dovuto prima che Siegemund servisse. La giudice di sedia, senza paura, nel momento più importante del match ha dato un nuovo warning per perdita di tempo e le ha fatto perdere il punto che ha ridato poi vita alla francese. Il clima dentro l’arena era incandescente con il pubblico normalmente molto tranquillo che faceva sentire tutto il proprio malcontento e il primo punto sul 5-5 fu giocato sotto una cascata di fischi per una palla di Mladenovic giudicata buona. Da lì in avanti fu molto difficile tornare alla normalità e il tie-break fu vissuto tra le urla di carica del pubblico tedesco che vedeva Siegemund rientrare dall’1-4 fino al match point sul 6-5, spettacolare nella sua esecuzione ma ancora ricco di “drama”: Kiki ha giocato un’ottima smorzata, Laura ce l’ha messa tutta per arrivarci e con la punta della racchetta ha rimandato la palla di là in un angolo strettissimo, nei pressi della riga (a occhio e velocità normale più fuori che dentro). L’arbitro o il giudice di linea sono rimasti in silenzio, il pubblico pure, Mladenovic fissava il punto d’impatto, Siegemund era l’unica a parlare e a gesticolare in maniera veemente per indicare quello che per lei era il segno del suo colpo. Palla buona, partita finita, pubblico (e Siegemund) al settimo cielo. Mladenovic, nonostante la sconfitta, è stata comunque gentile sia in campo che in conferenza stampa: “Laura, congratulazioni, la tua settimana è stata “insane”. E a tutto il pubblico: siete voi che rendete straordinario questo sport. Questa pressione, quest’atmosfera, è stato incredibile. Credo di non aver mai avuto un’atmosfera così nel circuito WTA con tutti schierati per me o per la mia avversaria”.

7. E. Vesnina b. S. Kuznetsova 6-7(6) 7-5 6-4, Indian Wells, finale

Giù il cappello a prescindere. L’essere professionisti (o professioniste, se volete essere più puntigliosi) al massimo grado. Una finale alle 11 del mattino a causa del fuso orario di 9 ore  con il centro europa (10 con la Russia, 8 con la Gran Bretagna), con l’impossibilità di scendere in campo più tardi perché poi la scena è tutta per gli uomini, è già qualcosa di crudele, farlo in condizioni climatiche massacranti è la ciliegina sulla torta. Lo stadio di Indian Wells è il classico impianto che si estende fino a sotto il livello del terreno e nella parte bassa il calore percepito aumenta a livelli esagerati. Così, se nell’aria c’erano sui 35 gradi o più, a livello del suolo saremo tranquillamente stati sopra i 40 con il terreno di gioco che raggiungeva anche nei giorni precedenti i 52/54 gradi. In questo contesto, Elena Vesnina e Svetlana Kuznetsova si sono superate per una battaglia di 3 ore esatte dove hanno lasciato fino all’ultima goccia di energia. Il derby rosso più improbabile si è trasformato in una partita di prim’ordine dove nessuna delle due riusciva a prendere il comando.
Già semplicemente stando sugli spalti c’era una sensazione di calore esagerata, da augurarsi di ricevere una doccia congelata al più presto. Le due, invece, continuavano a scambiare, a colpire, a costruire (Vesnina ottima doppista, Sveta sa fare qualsiasi cosa con la racchetta), a prendere asciugamani consumati ormai fino a far sparire l’attrito, a cercare riparo nelle poche zone d’ombra. Il primo set è durato più di un’ora: Vesnina aveva trovato il primo allungo sul 4-2 ma non aveva capitalizzato e la sfortuna le aveva tirato uno schiaffo dritto sul volto quando sul 7-6 Kuznetsova nel tie-break un dritto di contenimento steccato della ex numero 2 del mondo aveva colpito il nastro ed era morto appena dopo. “Non ci volevo credere, non poteva finire così quel set dopo tutto l’impegno che avevo messo” dirà poi, Vesnina. Nel secondo set è arrivato l’iniziale contraccolpo, con Kuznetsova che sembrava destinata al titolo più importante da diversi anni quando si è trovata sul 4-1: “A quel punto ho cercato soprattutto di non abbattermi ulteriormente: è la finale più importante della mia carriera in singolare”. È rinata: parziale di 6-1 e tutto che veniva rimandato al terzo. Era il suo momento migliore, con una Kuznetsova invece più in difficoltà fisica, ma un nuovo cambio nella partita ha visto quest ultima tornare avanti. Di nuovo, questa vota da 4-2, Sveta non ha saputo far suo il match. Vesnina si riportava subito a contatto (3-4) e trovava l’aggancio vincendo con coraggio e vincenti un game di battuta da 0-30. Sul 4-4 nuovo turno di battuta complicato per Kuznetsova, che su una palla break vedeva il falco correggere fuori un suo attacco.
Al servizio sul 5-4 Vesnina è stata freddissima e con un’ultima risposta lunga della connazionale ha coronato le due settimane che coronano una carriera già così straordinaria dopo i diversi titoli Slam in doppio e la medaglia d’oro olimpica a Rio 2016.

Halep, bis in “patria”


6. L. Siegemund b. V. Williams 6-4 6-7(3) 7-5, Charleston, R32

Prima del grave infortunio di Norimberga, dove Laura Siegemund ha lasciato sul campo un legamento crociato rovinando i piani per un Roland Garros da protagonista a sorpresa (sarebbe stata lei a scombinare le carte, ovunque sarebbe capitata), la tedesca è stata grande protagonista della stagione su terra. L’inizio di stagione è stato molto deficitario, ma  appena sotto le suole delle scarpe ha ritrovato la sua superficie preferita ecco che il rendimento è schizzato verso l’alto.
A Charleston una maratona di oltre tre ore contro Lesia Tsurenko al primo turno, poi un’altra di poco meno di tre ore contro Venus Williams. Siegemund, su terra, per circa 3 ore. Il numero di smorzate effettuate era già oltre la media dopo metà del primo parziale. Dopo aver capitalizzato un break in suo favore sul 4-4 ed aver vinto il primo set, ha avuto l’occasione di chiudere la partita sul 5-4 e servizio nel secondo ma dopo aver mancato un match point ha dovuto cedere al tie-break. Venus, che avrebbe poi rivelato in conferenza stampa che credeva ormai di aver vinto la partita, nel terzo set si è fatta rimontare un iniziale break di vantaggio e sul 5-4 è stata lei ad avere match point, ma la tedesca è stata bravissima a invertire le sorti di una partita ormai segnata e girarla in proprio favore raccogliendo una delle vittorie più prestigiose della sua carriera sbocciata, probabilmente, troppo tardi (classe 1988, si è affacciata nei grandi palcoscenici solo a fine 2015).

5. S. Halep b. K. Mladenovic 7-5 6-7(5) 6-2, Madrid, finale 

L’ultima delle 4 finali giocate da Mladenovic in stagione è anche la più importante, in un Premier Mandatory di Madrid, 10 giorni dopo la finale densa di emozioni a Stoccarda. Ancora una volta il cammino è stato ricco di soddisfazioni con anche il successo contro Kuznetsova in semifinale. Eppure in quel match fu importante notare come nel tie-break del secondo c’era la sensazione che avrebbe dovuto chiudere senza andare al terzo set o poteva accusare delle noie muscolari nella zona della schiena. C’erano infatti i primi segnali di quello che si sarebbe verificato il giorno dopo, contro Halep.
Una partenza sprint l’ha portata avanti 2-0, le ha dato chance di allungare il margine, ma sul 5-3, dopo la prima fatica accumulata, i dolori alla schiena si sono ripresentati. Halep ha girato il set e preso un vantaggio importante (in ogni caso, a quel punto recuperarle un set di ritardo era impresa veramente dura) e nei primi game del secondo la situazione sembrava delineata: una Mladenovic sempre più bloccata non avrebbe potuto competere alla pari. Invece, dopo essere riuscita a riprendere un iniziale break di ritardo la francese ha ritrovato la concentrazione, accettato il fatto che non fosse al meglio, e pensando unicamente al suo tennis è riuscita a fare testa a testa con la rumena. Tutto era tornato in bilico e il confronto di stili rendeva la partita molto godibile.
Ha lottato finché ha potuto, Kiki, creando bel gioco e suspance fino al sesto game del terzo set quando ha cercato in tutti i modi di riprendere un turno di battuta alla sua avversaria che, passato quello spavento, ha poi allungato e chiuso con il servizio a disposizione. Per come si erano messe le cose, ha meritato ogni applauso ricevuto dal pubblico mentre Halep bissava il titolo del 2016 in quello che può essere considerato il suo secondo torneo di casa vista la direzione targata Ion Tiriac e il grande successo delle tenniste rumene da quelle parti.

Ostapenko, primi segnali di gloria


4. K. Mladenovic b. Y. Putintseva 6-2 6-7(3) 6-4, San Pietroburgo, finale

La Mladenovic ammirata tra febbraio e giugno era qualcosa di sensazionale. Rarissime le partite in cui era “off”, e con quel gioco così frizzante ogni partita diventava ricca di interesse. La finale di San Pietroburgo è stata una tappa che non potrà dimenticare: oltre alla gioia del primo titolo in carriera, alla quarta finale, la soddisfazione ulteriore di aver prevalso in una partita thriller ma quantomai divertente.
Per tutta la prima parte del 2017 il suo livello era da top-5 la dimostrazione si è avuta in questa partita fino al 6-2 5-2. Impossibile fermarla fin lì, quasi impossibile vederla prendere decisioni tattiche errate o giocare con quel nervosismo e fretta che la prendono quando i punti diventano importanti. Poi sì, ha sentito il momento ma in maniera comunque non troppo determinante: se sono poi andate al terzo, grandissimo merito va dato a Putintseva che ha sfruttato la minima indecisione per costruire la sua rimonta e caricarsi come solo lei sa fare, diventando una furia (chiedete a Caroline Wozniacki cosa ne pensa a riguardo..) e riuscendo a imporre lo stesso gioco che in settimana le aveva permesso di battere Svetlana Kuznetsova e Dominika Cibulkova.
Un passante stretto sul 3-5, sull’unica voleè mal giocata dalla francese ha segnato un solco netto tra la partita che è stata fin lì e quella che sarà da lì in avanti. La massima espressione della kazaka si è tramutata in 4 game consecutivi e in un tie-break dominato. Mladenovic avrebbe poi ritrovato il massimo del suo tennis fino al 5-1 nel set decisivo, ma ancora una volta prima di poter esultare ha dovuto soffrire parecchio. Straordinario l’atteggiamento della sua avversaria, che più andava sotto nel punteggio e più si superava per risalire. Ancora una volta è bastato un punto per rimettere tutto in bilico, nonostante la distanza nel punteggio fosse così ampia: su uno dei match point Mladenovic ha giocato uno smash non troppo definitivo ma abbastanza angolato e la sua avversaria si è inventata un missile di dritto a pizzicare la linea laterale. Da lì in avanti altri 10-15 minuti di testa a testa, con Putintseva sempre più vicina, fino al 5-4. La kazaka ha annullato anche il quarto match point dopo i 3 sul 2-5. Finalmente, possiamo dire, al quinto Kiki ha avuto la forza di giocare un nuovo dritto anomalo. Forte, all’angolino, imprendibile. Da lì, si è lasciata andare alla commozione.

3. J. Ostapenko b. C. Wozniacki 5-7 6-3 7-6(5), Praga, R32

Quando ricapita di vedere una giocatrice fare 70 vincenti in una sola partita? 70, vuol dire 23,3 a set. Su terra, oltretutto, contro una delle più forti giocatrici in fase di difesa. C’è tutto per esaltare la prova di quel pomeriggio della lettone, che ancora doveva vivere la campagna trionfare all’ombra della Torre Eiffel, doveva farsi conoscere al mondo intero e non semplicemente a quella nicchia di persone che l’aveva già vista sommergere di dritti e vincenti Carla Suarez Navarro (6-2 6-0) e Sara Errani (6-0 anche lì, prima di perdere al terzo anche a causa dell’inesperienza) nelle primissime uscite nel circuito maggiore, nella seconda metà del 2015.
Meno di due anni dopo aveva già all’attivo risultati di livello e prestazioni di valore contro le migliori, veniva dalla sconfitta per 10-8 in Australia contro Karolina Pliskova, dalla battaglia contro Dominika Cibulkova a Indian Wells, dalla finale di Charleston persa (malamente) contro Daria Kasatkina. Proprio in South Carolina, ai quarti di finale, la prima sfida del 2017 contro Caroline Wozniacki conclusasi in 2 set (6-2 6-4) ma dove dimostrò l’incredibile capacità offensiva di cui è dotata: 40 vincenti, 20 a set. Se nel tennis di oggi, fisico, che premia molto (troppo?) spesso la resistenza sull’aggressività, si riesce a completare un filotto del genere vuol dire che le qualità sono enormi e non si è una semplice “sparapalle”. 40 vincenti a Charleston, 70 a Praga, 38 a Parigi. 3 partite, 3 vittorie. Se riuscirà a sistemare il servizio, come diciamo spesso, sarà una minaccia costante e ancor più pericolosa. Intanto, il rocambolesco match in Repubblica Ceca.
Nel primo set non ha mai tenuto la battuta fino al 5-4 Wozniacki, ma la sua capacità di attaccare sistematicamente la teneva sempre a galla. Non bastò l’aggancio sul 5-5, perché mancò poi un nuovo break favorendo il 7-5 in favore dell’ex numero 1 del mondo. Nel secondo set tutto divenne più scorrevole fino alle prime palle break concesse, da Wozniacki, sul 3-3. Brava a risalire da 0-40, non altrettanto fortunata sulla palla game e a forza di spingere, soprattutto col dritto lungolinea, Ostapenko ha preso il vantaggio. Spettacolare la serie di 3 dritti vincenti per risalire nel game successivo da 30-40 a 5-3. Sembrava un allenamento: tutti colpiti nello stesso punto del campo, tutti verso il lungolinea, uno più preciso e letale dell’altro.
Infine, nel parziale decisivo, c’è stato un nuovo (triplo) capovolgimento di fronte. Wozniacki approfittava di un brutto game di battuta della lettone per andare 3-1, ma da lì non ha quasi più visto la palla fino a quando non è stata indietro 3-5* 40-15. Bravissima (stavolta sì) a prendere rischi sul primo match point e a creare dubbi nella testa di Ostapenko, meno sul match point avuto sul 6-5 40-30 quando la sua palla corta non è stata precisa e Ostapenko, staccando la mano sinistra, ha giocato uno slice molto profondo ma nettamente in campo. Wozniacki, colpendo “a vuoto” come aspettandosi una chiamata, è andata su tutte le furie. Niente chiamata e controbreak per il 6-6 con un rovescio lungolinea meraviglioso. Un’indecisione della danese, sull’1-1, è stata decisiva tanto quanto il dritto mandato sotto al nastro sul 3-4. Al sesto match point, Ostapenko ha chiuso la pratica.

La serata magica di Sharapova


2. G. Muguruza b. A. Kerber 4-6 6-4 6-4, Wimbledon, R8

Sono due i tornei giocati in maniera buona/ottima da parte di Kerber in questo 2017: Wimlbedon e Tokyo. Se dell’appuntamento giapponese abbiamo già raccontato, ora tocca a quello londinese dove già prima della partita contro Garbine Muguruza mise in luce una buona condizione contro Kristen Flipkens al secondo turno, match passato completamente in sordina nonostante si vide tanto bel gioco da parte di entrambe. Eppure Kerber, nonostante fosse ancora numero 1, non partiva con alcun pronostico favorevole e anzi molti si erano quasi dimenticati di lei, pronti a spuntar fuori nel momento in cui avrebbe perso e si sarebbe parlato del nuovo disastro e di una numero 1 incapace di reggere il peso delle responsabilità. Ebbene, la tedesca fu anche vittima di un destino beffardo. Avrebbe potuto perdere la leadership del ranking diverse volte nei mesi scorsi, avrebbe potuto perderla a Parigi quando subì una grave sconfitta al primo turno, ma chi era dietro aveva tanto terreno da recuperare e nessuna che sembrasse in grado di cominciare una striscia vincente come poi fece Halep (in termini di pure partite vinte e costanti piazzamenti tra semifinale e finale) da fine aprile. Avrebbe potuto perderla dopo la sconfitta a Eastbourne, netta anche quella. L’ha persa al termine di una partita vera, giocata in maniera quasi ineccepibile e dove forse non meritava neppure di essere eliminata.
Fu l’unica a prendere un set contro una Muguruza che in quelle due settimane è stata ingiocabile quasi per tutte tranne Kerber, che stava impostando una partita perfetta. Innumerevoli le volte in cui chiamava la spagnola avanti, regolarmente passata, in ogni modo, con qualsiasi colpo. Zero palle break concesse per un set e mezzo, letale sul 4-4 nel primo set dopo alcuni game in cui si era ben comportata al servizio. La spagnola ha dovuto dare tutto per trovare il punto del set pari e poi per rimontare le due circostanze in cui è stata sotto di un set nel parziale decisivo.
Gli ultimi game sono stati i migliori, culminati nel trionfo decisivo (a conti fatti) per la conquista non solo del secondo Slam in carriera ma anche, due mesi più tardi, del numero 1 del mondo.

1. M. Sharapova b. S. Halep 6-4 4-6 6-3, US Open, R128

Simona Halep ha concluso l’anno al numero 1 del mondo con appena 40 punti di margine su Muguruza. Sappiamo bene quanto abbia dovuto penare per arrivare in cima alla vetta del ranking, così come sappiamo che nell’ottica generale non le verrà mai riconosciuto (almeno, ad oggi) un vero ruolo di numero 1. Come per tutte le altre giocatrici (Serena Williams a parte) che si sono avvicendate in testa al ranking è stato soprattutto un periodo favorevole nel ranking rispetto ai risultati di 12 mesi prima, un altro modo di intendere la classifica che proprio non piace alla gente, soprattutto a chi è completamente estraneo a queste dinamiche e vorrebbe che al primo posto ci fosse solo la più meritevole in assoluto (47 vincitrici Slam diverse nell’Era Open, solo 25 sono transitate al numero 1).
Dunque Halep, che veniva dalla pesante, cocente, grave (scelgiete voi) sconfitta di Cincinnati contro Muguurza era comunque la favorita per diventare numero 1 dopo lo US Open, questo però prima del sorteggio. Chi pescò la rumena? Maria Sharapova. 0 vittorie su 6 incontri. Non gliene andava dritta una.
Così, dopo l’Australian Open dove veniva da un inverno passato a fare riabilitazione per un ginocchio malconcio e quasi senza preparazione fisica, arrivò una nuova sconfitta al primo turno in un Major. Un nuovo “fallimento”, come venne indicato. Che è quasi un insulto nei confronti di Maria, autrice quella sera della prestazione migliore di tutto il suo travagliato 2017. Al di là della partita contro Eugenie Bouchard a Madrid, indicata da molti come la migliore dell’anno senza però tener conto che quella Sharapova era una sbiadita versione di se stessa e i fatti che giravano attorno alla partita pomparono l’evento ben più del dovuto, l’impressione era che la russa non avrebbe mai e poi mai accettato una sconfitta. Lo US Open è stato l’unico Slam a concederle una wild-card: si trattava del rientro in uno Slam dall’Australian Open 2016 e un abbinamento del genere voleva dire prime time serale, nello stadio da tennis più grande del mondo, in un paese capace di creare interesse a pathos già solo per una gara a chi mangia più hamburger in un minuto, figuriamoci una partita di questo livello.
Sharapova, in una versione resa ancor più luminosa dal completo ricco di diamanti Swarowski, ha cominciato aggredendo, tirando fuori quella rabbia agonistica abbinata a una condizione fisica ancora mai vista fin lì. C’erano dei dubbi per via del doppio infortunio tra maggio e inizio agosto, ma la sensazione reale vedendo il match svilupparsi era che qualsiasi problema avesse avuto non avrebbe detto nulla: troppo importante la chance di affrontare per la prima volta dal rientro una delle migliori giocatrici in circolazione; troppo importante la voglia di riappropriarsi e risentire quelle sensazioni di gioia che le davano le grandi imprese.
Il primo set era nelle sue mani, grazie anche a un brutto game dell’avversaria sul 4-5 e una seconda di servizio fin troppo tenera sul set point. Nel secondo Halep continuava a subire la grande aggressività dell’avversaria, resisteva più che poteva, ma sul 4-6 1-4 40-40 la fine sembrava vicina. Invece ha continuato a giocare, alzando il ritmo quando poteva e cominciando a sua volta a creare problemi (grazie anche ad una diversa profondità dei colpi) all’avversaria, andata in difficoltà col servizio e costretta a cedere 5 game consecutivi. Come accaduto 12 mesi prima, in quella situazione contro Serena Williams, Halep sbagliava l’approccio nel set decisivo e si trovava subito costretta a rimontare. La partita è rimasta comunque in bilico fino alla fine, anche se dal 3-0 era tutto nelle mani di Maria e doveva fare tanta attenzione a non avere nuovi cali al servizio.
La vittoria, l’esultanza di lei prima col pugno chiuso e agitato in avanti con tutto il pubblico attorno in piedi, poi in ginocchio per terra con le mani a coprirsi il volto (la sua tipica esultanza dei 5 Slam vinti in carriera) a suggellare l’importanza di un primo turno giocato come una finale e vinto a tutti i costi. Pazienza se poi non è più riuscita a riproporsi allo stesso livello finendo per cedere (a fiato corto) contro Anastasija Sevastova negli ottavi di finale, quel successo contro Halep ha un’importanza ben maggiore: quella sera si è definitivamente riabilitata agli occhi di tutti.

Diego Barbiani

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