Spalle ingobbite per scelta, cuffie alle orecchie, che è meglio non sentire, non vedere, non capire; entra in campo e forse cerca concentrazione, forse uno sguardo da sfidare, perché ognuno le motivazioni le trova da sé.
Poi ci sono i giorni in cui il braccio va da solo e la pallina sembra una palla da basket (a lui forse più cara di quella da tennis) e i game che lascia a un gregario come Troicki sono appena tre. Altri in cui un pensiero storto, una scocciatura, una luna contraria ti fanno sentire più i problemi fisici: ti ritiri, è colpa dell’anca. Un giorno sì, un altro pure, quello dopo chissà.
Le cause dell’inaffidabilità tennistica di Nick Kyrgios sono diverse, tutte possibilmente giuste, tutte potenzialmente sbagliate; più di tutto però c’è il rapporto di amore/odio che ha costruito con la sua professione, che tale non considera. Come se quello che Nick facesse lo dovesse fare perché ne possiede il talento, senza però averne la reale voglia o senza averla ancora scoperta.
L’impegno, si sa, uccide i desideri: che quella pallina ti piace colpirla, a modo tuo, con una capacità sconosciuta a pochi, con un gesto breve e senza paura, senza guardare chi c’è dall’altra parte della rete. Non si è mai lasciato intimorire: Federer, Nadal e Djokovic (non tre capitati lì per caso) ne sanno qualcosa, soprattutto il serbo. Nel disgraziato 2017 di Kyrgios, la migliore partita l’ha giocata (e persa) proprio contro lo svizzero in semifinale a Miami, in un match deciso da un paio di punti; perché il problema di Nick non si pone quando la motivazione è facile e servita su un piatto d’argento: come un adolescente alle prese con le prime cotte, sa vivere l’innamoramento e l’eccitazione ma non conosce la costruzione di un amore, che spezza le vene delle mani, che mescola il sangue col sudore se ne rimane (cit.)
Kyrgios non sa ancora se ama il tennis da persona che ha scelto il tennis per la vita e di conseguenza non lo sa vivere e quindi non è possibile ancora catalogarlo come giocatore vero: lo sarà mai? Difficile a dirsi. Quello che vedi da fuori è lampo, esaltazione, colpi (ripetuti) che fatichi a vedere altrove ma che da soli vogliono dire poco e a volte proprio nulla, tra una lamentela con l’arbitro scimmiottando JMac e una confessione al pubblico casuale durante il suo allenamento per la sofferenza a causa dell’abbandono della fidanzata.
In tutto questo ventidue anni e tanti ritardi, attese, indecisioni, pochi e abbaglianti exploit: qualche partita facile come quella con Troicki, i ritiri contro Sandgren, Herbert, sconfitte contro Kicker (chi?) in un torneo 250 a Lione.
Che a entrare nel vortice della Lost Generation ci si mette poco: nel suo caso, l’aggravante “macchietta”. Mentre gli Zverev vanno veloci.
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