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Federer, trentasei momenti della nostra vita tennistica

Li contiamo a ogni stagione, gli anni di Roger Federer. E ogni stagione di più (perché come insegna Fever Pitch per alcuni gli anni non esistono, esistono solo le stagioni) pensiamo siano tanti.

Nell’anno dei trentasei Roger Federer è rinato, dopo essersi rintanato sei mesi, per illuminare un tramonto con un sole che non va via, come se il mare all’orizzonte non riuscisse a risucchiarlo a sé, come nell’ordine preciso delle cose. Se ogni cosa ha il suo tempo, Federer pare non averlo; eppure ci sono trentasei ritagli di tempo in cui ha scandito le nostre stagioni, rendendole nostre e fissate in una linea immaginaria che ancora non trova riposo.

#1. Il tema a scuola: quando Roger aveva nove anni e la maestra gli chiese di scrivere per esteso quale fosse il proprio sogno, non ebbe alcun dubbio: “Diventare il numero 1 del mondo nel tennis. Non il numero 10 o 20, non mi interessa. O 1 o niente”.

#2. Ecublens: La cittadina vicino Losanna della Svizzera francese accolse un Federer alle soglie della pre-adolescenza con tanta paura che però si buttò in un’avventura dalla quale ebbe la tentazione di fuggire tante volte: le telefonate ai genitori a Basilea, “Mamma voglio tornare a casa”, servirono solo a capire che dall’altra parte della paura c’era tutto quello che desiderava, imparare a giocare a tennis e prepararsi al professionismo.

#3. Squaletti: “Ma tu non li vedi, Peter? Sono lì, sotto la rete, ci sono degli squaletti, io non mi avvicino”. È quello che si sentì dire Peter Carter, primo coach di Federer, quando lo esortò ad avvicinarsi a rete per chiudere i punti. Roger, che li ha sempre visti lì, si è buttato lo stesso.

#4. La perfezione: René Stauffer diventerà il suo biografo ma quando andò a vederlo la prima volta Roger aveva 15 anni e dopo aver imprecato in campo, alla domanda precisa sul perché di tanta rabbia, rispose al giornalista: “Perché si deve essere capaci di giocare un tennis perfetto, no? È per questo che sono arrabbiato”.

#5. Wimbledon juniores: è il Luglio del 1998 e Roger Federer ha quasi 17 anni. La rete, dice, gli sembra più alta di quella dei tornei dove è abituato a giocare, va a controllarla ma si dice di essere matto, a Wimbledon fanno le cose per bene. Convinto di ciò, batte il georgiano Labadze con un doppio 6-4 e come Stefan Edberg, uno dei suoi idoli, diventa campione juniores a Church Road.

#6. Basta racchette spaccate: È una partita a Roma nel 2001 contro Marat Safin, vinta per il rotto della cuffia, che convince Federer a pensare a cosa sta facendo: nello spogliatoio lui e Marat si riguardano gli highlights ed entrambi vogliono avere il primato di racchette spaccate. Subito dopo Roger si dirà che non vuole essere ricordato per questo. Cambierà tutto.

#7. Milano 2001. Il primo torneo, la prima gemma. È proprio a Milano, in finale contro Boutter, che comincia tutto: dopo finali perse e lacrime amare, Federer capisce che il suo talento non verrà sprecato.

#8. Sampras. Gli ottavi di finale a Wimbledon 2001 contro Pete Sampras lo consegnano al mondo come il nuovo Erede che accoglie un tesoro e un fardello molto grandi da portarsi dietro: cinque set, tutti giocati all’attacco. “Non so perché ma sul Match Point sapevo già mi avrebbe servito sul dritto, ero pronto, sapevo dove piazzare la risposta”. Lungolinea, Sampras passato. Il giorno del passaggio di consegne.

#9. Peter Carter. Non era più il suo coach da tre anni buoni ma l’affetto e il legame tra Federer e il suo primo coach (australiano residente in Svizzera) era fraterno: quando Peter raggiunse la moglie in Sudafrica per una vacanza e morì in un incidente d’auto, la cosa sconvolse lo svizzero e gli fece cambiare prospettiva sulle cose. È anche così che cresci.

#10. La semifinale contro Roddick. La partita che lo lancia verso il primo Slam, l’egemonia e la gloria. Quasi sfavorito contro un avversario allora più potente e pronto di lui, Federer gioca un tennis perfetto contro il povero Andy che nulla può.

#11. Il numero uno. Fine Gennaio 2004, l’Australian Open è vinto e Federer per la prima volta è numero uno del mondo. Il tema ha finalmente senso, i desideri sono compiuti: la fame non finirà mai.

#12. Houston e il tie-break. Una partita che segna la lotta per il primato di allora, giocata nella semifinale del torneo di fine anno, sotto gli occhi di Bush Senior, del mondo, dopo l’infortunio che lo costringe a saltare il torneo di casa. E un tie-break di rara bellezza.

#13. La partita giocata in Paradiso (e persa). Agli Australian Open del 2005 Federer gioca una partita perfetta sempre contro Safin che gioca una partita ancora più perfetta. È la prima vera grande sconfitta dopo aver preso il comando ma paradossalmente, agli occhi di tutti, ne esce ancora più vincente.

#14. Foster Wallace. Uno scambio terminato con un vincente di dritto inside-in  in finale a New York contro Agassi folgora l’autore di Infinite Jest: quella cosa che non ti spieghi, che spiazza il tuo orizzonte delle attese e che spinge a scrivere un saggio su qualcosa che è sport ma non è solo quello.

#15. Shanghai e Nalbandian. Con una gamba sola, in finale al Master, va avanti di due set contro una delle bestie nere di sempre che disegna il campo come pochi. Poi si fa rimontare, poi serve per il match. Alla fine perde ed è una di quelle sconfitte dal quale risorgerà più forte.

#16. Il pianto e il rispetto. Una vittoria sofferta ma aspettata, un’emotività nascosta troppo a lungo, un cuore celato dietro l’impassibilità: alla fine crolla durante la premiazione e alla presenza di Rod Laver, Roger Federer che vince in Australia per la seconda volta, nel 2006. Sono tutti basiti, un po’ imbarazzati: per la prima volta a Federer non importa.

#17. Roma. In una delle città che ama più al mondo, Federer diventa finalmente umano. A un piccolissimo passo dal battere il più forte Nadal di sempre sulla terra, si prende paura. Ma è proprio in quella partita drammaticamente persa in un anno glorioso per lui che sottolineerà il contrasto tra divinità e umanità e lo farà divenire religione per chi vuole credere.

#18. Backhand Porn. Un rovescio dopo l’altro, nell’anno del rovescio costruito da Tony Roche: la finale del Master è una violenza di rara bellezza e a James Blake, talento e brillantezza, non resta che guardare cose a cui fa fatica a credere.

#19. L’umiliazione senza sforzo. Sindrome di Stendhal, sconcerto, dispiacere per l’umana pietà. A questo è costretto Roddick in un one man show che non ha senso in una semifinale a Melbourne.

#20. Canas. Le due sconfitte consecutive a Indian Wells e Miami contro Canas sono per Federer il campanello d’allarme che annuncia che sì, vincerà ancora tanto, il tempo dei cannibali però è terminato, malgrado ci metterà ancora un po’ per accettarlo.

#21. Il dritto che salva da Nadal. Per il quinto Wimbledon consecutivo è necessario aggrapparsi a tutto, salvare quattro palle break nel set decisivo, giocare un back che quasi non si rialza da terra e chiudere sulla riga con un dritto che apre le porte del Paradiso, contro un Nadal che digerirà l’ultimo boccone amaro.

#22. Il passante di rovescio. I will follow you into the dark, perché è proprio nell’oscurità di South West 19 che porterà quello splendido passante di rovescio a salvare match point e a regalare una vana ma necessaria speranza a chi l’orgoglio non l’ha ancora perduto.

#23. L’oro che non ti aspetti. Pechino è faticosa, deludente, impossibile. Ogni Olimpiade pare stregata. E allora Roger ritrova la voglia e il piacere di giocare insieme a Stan Wawrinka, mettono su un doppio improbabile e fortissimo che darà a Federer nuova linfa e consegnerà alla Svizzera la medaglia d’oro.

#24. L’inconsolabile. La frustrazione e il senso dell’inevitabile. Sul palco a Melbourne, sconfitto ancora una volta dall’acerrimo nemico/amico, Federer non ce la fa a trattenersi. Quasi se ne vergogna ma si libera di un peso emotivo sopportato troppo a lungo.

#25. L’ace e il ditino. Qualche mese più tardi, a casa del rivale, sulla superficie a lui più congeniale ma in condizioni più favorevoli, Roger zittisce la Caja Magica con un ace e il dito alzato. “Non me ne sono andato, se ve l’eravate chiesti”.

#26. Il dritto Career Slam. Occhi chiusi, la va o la spacca. È andata. La paura tornerà, ma so come mandarla via. E prendermi quel che rincorro da anni. A Parigi, nell’anno giusto e nella pioggia.

#27. La partita perfetta. Giocata contro un Djokovic che fin lì non aveva mai perso in stagione: sguardo cattivo, colpi registrati a dovere. Stronca ogni speranza al nuovo cannibale, gioca un passante sul 3-3 del quarto set che nessuno sullo Chatrier riesce a crederci.

#28. Le due volée. Una dopo l’altra, per ribaltare una partita, invertire l’inerzia, aspettare il tetto chiuso, tornare a vincere nel suo giardino. Quelle contro Murray sul 6-5 in finale a Wimbledon nel secondo set, sono due autentiche bellissime ribellioni.

#29. Il bacio alla maglia. Una partita estenuante, la più lunga al meglio dei tre set, vinta contro Del Potro alle Olimpiadi a Wimbledon, trascina Federer a baciare la bandierina svizzera sulla maglia. È una vittoria dolce che porterà alla consapevolezza amara di non poter essere al meglio il giorno dopo ma anche a sapere di avere raggiunto una medaglia in singolare.

#30. La tentata rimonta. In una partita che aveva sperato di vincere, vide dall’altra parte del campo un giocatore perfetto e più affamato di lui: Djokovic è imbattibile ma Federer quasi battuto reagisce da campione e porta la partita al quinto. Un’inutile rimonta che però gli farà ancora più amare quello che fa.

#31. La Coppa Davis. Alla fine arriva, come tutto nella sua carriera. Arriva quando meno te lo aspetti e nelle condizioni peggiori: rinuncia pure alla finale al Master per potersi giocare una chance, accetta l’umiliazione nella prima partita contro Monfils. La chiuderà lui contro Gasquet e piangerà, ancora, come un bambino, sporcandosi della terra indoor di Lille.

#32. Cilic a Wimbledon. Un anno prima della rinascita, la partita che, anche non al meglio, decide di vincere. Una rimonta senza logica, quasi solo di braccio e di voglia, prima di soccombere in semifinale al gigante canadese e arrendersi al riposo.

#33. La resa. La rinuncia alle ultime (?) Olimpiadi della carriera a Rio, un obiettivo prefissato da tempo, sa di resa, di mani alzate, di abbandono al tempo. Lui però sa che è tempo di fermarsi, di andare sulle Alpi a ritrovare condizione, convinzione, di rinascere ancora, di rinnovarsi sempre. È una scelta decisiva che frutterà più di quanto anche lui, sognatore, aveva sperato.

#34. Il cerchio si chiude. Il primo torneo ufficiale dopo la pausa è duro, estenuante, però non ha aspettative. E Roger ci si tuffa dentro. C’è ancora Nadal in finale, pare uno scherzo: torna a vincere uno Slam dopo cinque lunghi anni nella maniera in cui aveva sempre subito lo spagnolo. Il momento in cui tutte le ferite guariscono e ogni cosa, per lo svizzero, acquista significato.

#35. Otto. È l’obiettivo del 2017, non l’aveva mai nascosto. Ma vincere di nuovo Wimbledon, riuscire a farlo più di tutti e senza perdere nemmeno un set a trentacinque anni è leggenda e incredulità.

#36. Numero uno? L’ultimo ritaglio di tempo ci riporta al tema, al desiderio, al fuoco bambino che non se n’è mai andato. Proprio a trentasei anni, Roger Federer ha di nuovo la possibilità di tornare lì, in vetta. “O 1 o niente”.

Rossana Capobianco

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Rossana Capobianco

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