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Oltre il giardino

Anno 2048, a New York in una domenica di primavera un uomo di quasi novant’anni si gode il sole su una panchina di Central Park. Ha ancora gli occhi buoni e trasale di colpo quando scorge un ragazzino che gioca col suo cane lanciandogli una racchetta di legno.

Quando quello si avvicina il vecchio lo apostrofa duramente.
“Ragazzo, lo sai cos’è quella?”
“No signore” risponde lui intimidito, “ho trovato questo pezzo di legno in solaio e mi è sembrato perfetto per far divertire il mio Balto”. Sentendo il suo nome uno splendido lupo grigio scodinzola a più non posso.
“Dammi qua!”
Con uno strattone l’uomo prende l’oggetto, è segnato profondamente dai denti dell’animale e completamente ricoperto di bava ma lui lo maneggia con deferenza.
“Piccolo sacrilego! Questo pezzo di legno, come lo chiami tu, è una Dunlop Maxply.
Una racchetta storica, la mia racchetta”.
“Mai sentita nominare”
“Bé, non mi sorprende. Costa meno fatica guardare youtube che studiare il passato…”

“Oggi del resto si gioca su un’unica superficie no? Si chiama OMNIA, giusto?
Ricordo anche la pubblicità,
Rimbalzo minimo sopra la caviglia, massimo alla spalla. Praticamente eterna senza bisogno di manutenzione, ne’ troppo veloce né troppo lenta, ruvida il giusto e ricoperta da una pellicola idrorepellente che impedisce alla pioggia di toccar terra.
E anche lo slogan:
Resiste cent’anni senza danno né affanni
Universale è il diluvio ma bagnato non è
garantisce Noé

“E usate tutti la stessa racchetta, non è così?  Logico, visto che giocate uguale. Quasi darwiniano, direi”. Il giovanotto è un appassionato tennista e replica senza paura.
“Bè, la Total Raquet è il massimo, la fanno alla NASA e puoi regolare rigidità peso e bilanciamento collegandoti al computer. Ha uno sweet spot che va dal manico alla testa e le corde non perdono mai tensione. Ma forse lei non può capire…”
“Non essere insolente giovane padawan” risponde l’uomo strizzando l’occhio “questa era una racchetta per tempi civilizzati, non è goffa o erratica come le vostre, è elegante, invece”.
“Ma lei è forse Obi Wan Kenobi?”
“In un certo senso…” sorride il vecchio continuando.
“Oggi sembrano tutti forti. C’era un bel cartone animato di supereroi anni fa, il cattivo non ha poteri e inventa una quantità di marchingegni che consentono a chiunque di sentirsi super senza esserlo. Così, dice, quando tutti saranno super, nessuno lo sarà più.
Ed è quel che è successo”.

Poi, tornato serio” Sai, questa racchetta”, sussurra accarezzando quel che restava dell’antica Dunlop e, forse, dei suoi ricordi, “ha vinto decine di Wimbledon”.
“Bella roba! Quel ridicolo torneo esibizione che si gioca a Londra, se non sbaglio su erba e tutti vestiti di bianco? Ma tu dimmi se è possibile…”
“Holy shit, ma non vi insegnano proprio niente al club? Non sai che per più di un secolo il tennis si giocava praticamente solo su erba e la coppa di Wimbledon era il Graal?”
“Non è che ci parlino molto di queste cose” replica il ragazzo sulla difensiva, “questa storia dell’erba la conoscevo alla lontana. Più che altro facciamo palestra e ci alleniamo a colpire sempre più forte, ieri ho sfiorato i 100 kmh con un dritto” afferma orgoglioso.
Poi, incuriosito “…ma come faceva a rimbalzare la pallina?”

“È questo il bello caro mio. Avrei voluto vederti a picchiare su quei rimbalzi inesistenti. Ti sembrerà strano ma in un certo modo il legno delle racchette era il materiale perfetto per quel tennis, ti dava una sensibilità unica. Certo dovevi saper giocare, sennò addio gomito. Quello era uno sport, non il tiro alla quaglia che praticate voi. Una ricetta perfetta, moltissime abilità coinvolte e nessuna in modo preponderante. La potenza ha un che di volgare e non era sufficiente. Bisognava saper controllare la pallina, vedere un colpo avanti, avere una strategia. Si era esposti ai capricci di Eolo e Giove Pluvio, non come adesso che alla decima goccia si è già chiuso il tetto e giocate a temperatura costante come polli in batteria. I prati ti obbligavano a diventare un tennista completo ed era sul Centre Court che un campione doveva mostrare la sua grandezza”.
L’uomo comincia ad infervorarsi, gli occhi sfocati e fissi lontano mentre prosegue accarezzando ora voluttuosamente il legno di quel vecchio telaio.
“C’era l’erba traditrice australiana, quella alta e viscida della piovosa fine estate a New York. Ad Halle la pallina faceva un rumore unico, come una fucilata. A ‘s-Hertogenbosh si andava senza sapere dove fosse né tantomeno come andasse scritto quel diavolo di nome, mentre a Nottingham ci si sentiva tutti un po’ come gli allegri compagni della foresta. Poi si arrivava colà dove la via e dove il tanto affaticar fu volto, la perfetta distesa di lollio e festuca perenne di Wimbledon. Devi sapere che mentre il primo cresce dritto, la seconda ha uno stelo ad uncino e il risultato era un tappeto compatto e morbido, la superficie perfetta per un gioco imprevedibile come il tennis, in cui sai quando scendi in campo ma non quando ne uscirai. Un po’ come la vita, in fondo. Lì si gioca veloce, poco tempo per pensare, ancor meno per colpire. Era un luogo magico, gli scambi brevi ma non le partite. Le due maratone più lunghe della storia del tennis si sono svolte proprio su quei campi, non può essere un caso. Poi tutto è cambiato in un battito d’ali. Borg, la tv, le palline gialle, le super racchette. Gli Slam statunitense e australiano tradirono per primi la terra dei padri e quando anche l’erba del tempio è stata modificata la valanga non ha avuto più ostacoli”.
Il ragazzo è rimasto stregato da quel flusso di parole e ha completamente scordato il cane che si è accucciato uggiolando col muso fra le zampe.
“Ma lei come fa a sapere tutte queste cose?” Chiede.
“È lunga da raccontare” risponde l’uomo alzandosi a fatica e restituendo con la sinistra la racchetta malconcia al proprietario, “e per oggi il mio tempo è finito. Ma io sono qua tutti i giorni alle tre e se vuoi sentire il resto torna domani. Puoi portare anche degli amici, se vuoi”.
“Ci sarò signore, piacere di averla conosciuta. A proposito, io mi chiamo John, e lei?”
“You cannot be serious, kid”, risponde il vecchio “anch’io mi chiamo John. A domani, allora”

Raffaello Esposito

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