dal nostro inviato
Sarà la versione barbuta che sfoggia da qualche mese sotto un’aria tzigana, a suggerire la domanda, o forse la certezza di avere risposte certificate, di uno che il tennis ama inquadrarlo per quello che è. Ma se chiedete a Riccardo Piatti se non sia subentrata qualche linea di noia, nella sua pratica quotidiana, che è complessa e ampiamente diversificata, andando dal ruolo di primo coach con Milos Raonic a quello di organizzatore del più vasto gruppo di giovani speranze del nostro tennis, la risposta è «sì», anzi «un po’ sì» e deve far riflettere. Perché non è il tennis ad annoiarlo, piuttosto quello schematismo tipico dei mestieri sin troppo professionalizzati che porta i ragazzi «a tenere fuori della loro sfera la parte emozionale, l’innamoramento per il gioco, per ciò che hanno la fortuna di fare, anche per la competizione, che non è fatta solo di colpi creati per vincere, ma è una costruzione complessa, personale, introspettiva. Ed è bene che sia anche gioiosa». Il parallelo che Piatti propone rende più facile la comprensione del suo punto di vista, e anche del suo disagio. «Prendete Totti, e prendete Federer… Amano il gioco più di loro stessi. Non ci rinuncerebbero per nulla al mondo. È il loro carburante inesauribile. Ma quanti sono come loro?».
E di Milos, che dici Riccardo, lui è un innamorato del tennis?
«Non ancora come vorrei. Ma presto lo sarà. Viene da una famiglia di ingegneri, il suo tennis nasce su un campo davanti a una macchina lancia palle. Ora sta scoprendo l’emozione. Vedrete, gli servirà».
Sempre convinto che possa diventare il numero uno?
«Sempre, anche vista la concorrenza. Ha avuto infortuni, li sta superando. Nel gruppo dei più forti ci sta d’ufficio. E ha una chance importante, che viene dal suo gioco. Con Milos, ogni possibile incastro tennistico propone un confronto di stili, perché lui sa giocare d’attacco, sa rischiare. Con Raonic, è sempre Federer-Nadal, se capite che cosa intendo. Non c’è mai noia, non è mai Murray-Djokovic».
Giocano tutti uguale, ce lo diciamo sempre. Ma che fare?
«La verità? Nessuno è uguale a un altro nell’indole, nel carattere, dunque se giocano uguale è perché sono stati instradati così, e finiscono per negare quella parte di se stessi che li renderebbe diversi. È il discorso di prima, l’emozione, la gioia per ciò che si fa».
Hai dato un’occhiata a Stefano Napolitano? Che ne pensi?
«Sta crescendo bene, è un ragazzo serio, educato, di buone prospettive. Ma l’importante è che intorno a sé, già ora, abbia un team di buon livello, che sta investendo sulle sue potenzialità. Il tennis si fa scegliendo i migliori, in ogni ruolo, non ci sono altre formule».
Il nostro tennis però sembra indietro.
«Occorre capire che cosa si vuole. Un gruppo da primi cento? Già esiste. Basta aspettare questi ragazzi, vedrete, ci arriveranno tutti. Da Napolitano a Cecchinato, a Fabbiano e Donati, allo stesso Quinzi, che è in risalita. Ma noi abbiamo bisogno di un campione, e per quello il discorso cambia, perché per averlo occorre investire, spendere tempo e soldi. Tutto va costruito al meglio, uomini, mezzi, crescita personale, il team. E bisogna avere anche un po’ di culo».
Zverev ha perso con Verdasco, forse la nomina a futuro numero uno è giunta troppo presto.
«Le sconfitte ci stanno. Il ragazzo è forte, gioca un tennis diretto, non è Thiem che fa volare la palla due metri sopra la rete. Credo che Sasha, da grande, sarà un Murray un po’ più forte»
Il tuo allievo Ljubicic sembra abbia saputo dire a Federer le cose giuste.
«Ljubo ci sa fare, è un uomo semplice, diretto. Immagino che cosa abbia detto a Roger: sei Federer, fai il Federer. Smettila di sferruzzare con il rovescio, entra dentro e colpisci da Federer, ti diverti di più e fai prima».
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