Leggi l’intervista a Brian Teacher
Dopo Brian Teacher, nel 1981 e nel 1982 fu Johan Kriek ad imporsi in due vittorie “back-to-back” sull’erba del Kooyong Stadium di Melbourne. Due vittorie storiche per il suo Sud Africa, soprattutto la prima, che disputerà ancora sotto la bandiera dello stato africano. Il simpatico e disponibile ex-pro, oggi titolare della sua Johan Kriek Academy, ci rilascia una breve intervista parlandoci da Sarasota, Florida, ove oggi risiede.
Il tennista “normodotato”, un’immagine cancellata dall’incessante scorrere del tempo, oggi vista come appartenente a qualche foto in bianco e nero dei (bei) tempi che furono. Completi rigorosamente bianchi, gesti altrettanto bianchi, “serve and volley” a tutti costi, la rete la “mecca” del vincente nel nobile sport della pallacorda, piuttosto che (come sovente accade oggigiorno) una “grey area” dalla quale ci si deve guardare con un certo sospetto, quasi antipatia.
Il tennista normodotato, epitome e simbolo pressochè inscalfibile di quella gloriosa epoca in cui, se all’anagrafe facevi Kenneth Robert Rosewall, ed avevi un fisico -né più, né meno- da impiegato di banca che è solito praticare il tennis come hobby nel tempo libero, vincevi non solo “torneini” e tornei, ma addirittura prove del Grande Slam!
Il tennista normodotato, A.D. 2017: una specie in via d’estinzione, da salvaguardare a tutti i costi, un “UFO” a cui guardare con ammirazione, forse perché tutto sommato incapace di arrendersi alla disarmante semplicità dell’equazione dominante nel tennis odierno, cioè che più fisicamente “tosto” sei, e più forte tiri, più vincente sarai per tutta la durata della tua carriera. E a cui tributare un sempre comunque doveroso e meritato plauso, non importa se ti chiami Dhamir Dzumhur, Olivier Rochus (ritiratosi peraltro tre anni or sono), Ricardas Berankis o Diego Sebastian Schwartzmann. Sei un piccolo agnello sacrificale in un mondo di “bestioni”, di felini di grossa taglia, ma se vuoi, puoi smettere – almeno momentaneamente – l’abito della gazzella costretta a correre per la savana per portare a casa la pelle e non farsi sbranare dal leone di turno, per vestirli tu, per una volta, i panni del felino affamato. E anche se sai che non ce la farai, il pubblico in una maniera o in un’altra, ti amerà comunque, perché hai saputo opporre una fiera e pugnace resistenza a uno trenta centimetri più alto, e venti, anche venticinque chili più pesante di te.
Nel tennis che si giocò gli anni ’50 e gli anni ’70 essere normodotati non era, come già detto, un limite. Ma piuttosto, la norma. Tant’è che un giorno, un ragazzotto americano nato sulla linea di confine tra l’Illinois e il Missouri, di nome James Scott Connors, meglio noto come Jimmy, si affacciò (dopo un paio di stagioni di “apprendistato”) alla ribalta del tennis internazionale nel 1974 vincendo 3 prove del Grande Slam su 4, prendendo a pallate Phil Dent e per ben due volte Ken Rosewall a suon di “piattoni” di diritto e rovescio devastanti da fondo campo, finendo così per rivoluzionare totalmente i canoni di gioco che erano stati imposti fino ad allora. Aveva una faccia da chierichetto mancato con quella frangetta color corvino, ma era oltremodo scorbutico e irascibile, per non dire antipatico. Un piccolo diavolo irriverente ben disposto “a fare a cazzotti” verbalmente (ma nell’82 a Chicago le mani addosso a McEnroe le mise, eccome!) con arbitri, giudici di linea e avversari. E “il bello”è che non superava il metro e settantacinque di altezza. Ed era anche magrolino.
Esattamente come un ragazzo sudafricano che si sarebbe fatto un nome all’interno del circuito a partire dalla fine degli anni ’70, giocando un tennis che non gli avrebbe portato tanti allori quanti ne aveva portati a Connors, ma che non era solo brillante, ma proprio bello da vedere.
Il nome di questo giovane era Johan Kriek.
Nato, come con orgoglio egli stesso rivendica, quasi a voler sottolineare con quanta più forza di quanta già il concetto di per sé espresso sic et simpliciter non esprima “in un paesino del Sud Africa chiamato Pongola, di cui praticamente nessuno conosce l’esistenza. Che per quanto risulti agli occhi di tutti coloro che lo vedono per la prima volta, un posto meraviglioso ed incontaminato, ti fa pensare da subito al sacrificio e al duro lavoro come unici ed obbligatori “lasciapassare” per affermare te stesso, la tua libertà di uomo, la tua indipendenza. Per andartene a scoprire il mondo”.
Giocatore completo in tutti i fondamentali, servizio compreso, nonostante la non certo notevole altezza, elegantissimo quanto efficace nel gioco, perfettamente a suo agio su tutte le superfici, e soprattutto, dotato di una sbalorditiva rapidità negli spostamenti in campo, tanto che il suo nome venne presto affiancato a quelli di Bjorn Borg e Vitas Gerulaitis, come uno dei grandi “podisti” del campo da tennis, Johan Kriek ha solcato quasi tre ere di grande tennis tra la fine degli anni ’70 con il dominio Borg-Connors, per arrivare agli albori del periodo Agassi-Sampras, passando attraverso il regno di McEnroe, Lendl e Wilander di metà anni ’80.
S’impose per due volte consecutive all’Australian Open anticipando la “dominazione svedese” di Mats Wilander (prima) e Stefan Edberg (poi), che avrebbe portato la bandiera “blau guld” (blu e giallo oro) a sventolare su Melbourne, e nonostante si sia spesso dibattuto sull’effettiva importanza e “peso specifico” dell’Australian Open di quegli anni, è fuor di dubbio che lo fece con merito, ed offrendo in entrambi i tornei disputati e vinti nell’antico Kooyong Stadium tra il 1981 e il 1982, performances degne di essere ricordate.
Divenuto professionista nel 1977, si è ritirato nel 1994 alla non certo tenera età di 36 anni, dopo 5 stagioni travagliate per via di un’operazione al gomito. Con un best ranking di numero 7 del mondo ottenuto nel 1984, in carriera ha battuto giocatori de calibro di Arthur Ashe, Jimmy Connors, John McEnroe e Andre Agassi. Oggi Johan Kriek è un distinto signore di 58 anni e padre di famiglia, che è rimasto coinvolto direttamente nel tennis, creando la sua accademia personale, la Johan Kriek Tennis Academy, a Sarasota, nella soleggiata e mite Florida, da cui ci raggiunge in un gelido pomeriggio italiano…
Johan, sono trascorsi 35 anni da quando vincesti per 2 volte l’Australian Open nel corso dello stesso anno solare, il 1982. Che sensazioni provi ricordando quelle due edizioni del torneo e le vittorie ottenute, e come valuti a posteriori questi tuoi successi?
Anzitutto vi ringrazio, è un piacere avere l’opportunità di condividere tutto questo con voi. Gennaio è ovviamente un periodo speciale dell’anno per me, lo è perché, ovviamente, si disputa l’Australian Open, che ho vinto in passato. Dagli anni in cui ero professionista io e si giocava al Kooyong, per arrivare ai giorni nostri in cui il torneo si disputa nel fantastico impianto di Melbourne Park, ho visto questo torneo crescere anno dopo anno in termini di popolarità e indice di gradimento presso fans, stampa, e giocatori. Insomma, credo che questo possa essere definito lo Slam più divertente in assoluto dell’anno, e visto quello che si legge e si sente dire in giro, non penso di essere l’unico a pensarla così. Parte del merito è, senza ombra di dubbio, di Craig Tiley, coach sudafricano mio amico nonché compatriota, per anni in forze presso l’Università dell’Illinois e clamorosamente scartato dalla USTA, oggi direttore dell’Australian Open. Adesso gli australiani l’hanno tutto per loro, e penso se lo terranno stretto!
Per tornare alla tua domanda, 35 anni sono davvero tanti, e se mi guardo indietro, ripenso a come, quando ho vinto quelle due edizioni del torneo, avessi già disputato alcune stagioni nel circuito professionistico, con risultati altalenanti.
Quando sei un giovane professionista giochi per puro e semplice amore per lo sport, t’importano i risultati, certo, ma vai avanti, perché i successi molto spesso non arrivano allo schioccare delle tue dita. Devi darti da fare, prima che i successi arrivino, ed è stato così anche per me.
Ho trascorso 9 mesi nel Circuito Satellite dell’ITF, e subito dopo quel periodo di “rodaggio” ho cominciato a cimentarmi in tornei più impegnativi, dapprima a livello Challenger, e poco dopo, in quello ATP.
Il raggiungimento della finale degli Australian Open penso possa essere descritto come il culmine e la combinazione di anni di duro allenamento, un lento e progressivo processo di maturazione che ha portato il mio tennis a forgiarsi con continuità fin dall’epoca in cui ero junior, per poi portarmi ad approdare nel circuito maggiore.
Sei stato professionista per moltissimi anni. Hai esordito nel circuito maggiore nel 1977, e ti sei ritirato nel 1994… sono ben 17 anni di tennis professionistico!
È vero, anche se tra il 1991 e il 1994, ho in realtà giocato poco e a modo intermittente. Questo per via di un grave infortunio, la rottura del legamento del gomito destro. Le racchette in quegli anni erano molto cambiate, non mi sono trovato per nulla a mio agio con quelle prodotte specificamente all’inizio degli anni ’90. Comunque è una storia troppo lunga da raccontare, il mio gomito sa il resto, purtroppo…!
Sommando gli anni nell’ATP Tour a quelli nel Senior Tour, in cui ho giocato per 9 anni dopo il mio ritiro, il totale è di 20 anni di tennis giocato. Sì, sono in effetti molti!
E forse una cosa che molti ignorano di te, è che, ancor prima di diventare un giocatore professionista, sei stato un apprezzato maestro di tennis. E non nel tuo Sud Africa, bensì in Austria…
Avevo seguito il mio coach dell’epoca, Ian Cunningham, in Austria, dove aveva deciso di emigrare con la sua famiglia. È stato un altro periodo di formazione molto importante per me a livello tennistico, che mi ha inoltre permesso di migliorare molto sulla terra battuta. Decisi infatti di rimanere in Austria per altri due anni, in seguito all’inaspettata decisione di Ian di ritrasferirsi in Sud Africa. Essendo un buon atleta, imparai a “scivolare” in modo corretto sulla terra battuta, cosa indispensabile per giocare ad alto livello su quella superficie. E considera che non avevo mai giocato su terra rossa fino all’età di 17 anni!
In Austria misi inoltre qualche soldo da parte per vivere proprio grazie alla mia attività di insegnante. Non avevo certo lasciato il Sud Africa con una valigia piena di soldi…
Torniamo a quei 10 mesi intercorsi tra la tue due vittorie a Melbourne: la prima da te ottenuta come tennista legato al Sud Africa, mentre la seconda sotto la bandiera degli Stati Uniti, di cui eri già diventato cittadino… e entrambe le volte, contro lo stesso avversario!
Sì, una coincidenza incredibile a dirsi… conoscevo bene Steve Denton come giocatore, non perché ci fossimo affrontati prima di quel 1981 sull’erba del Kooyong, ma perché l’avevo visto giocare. Era in assoluto uno dei migliori battitori del circuito (detentore del record del servizio più veloce del circuito ininterrottamente dal 1984 al 1997), e un giocatore che altri grandi tennisti dell’epoca temevano. Ne aveva battuto più d’uno ed era arrivato a ridosso dei primi dieci del mondo.
La prima volta lo superai in 4 set in una finale che, al di là del punteggio e che non fosse mai arrivata, per mia fortuna, al quinto set, fu estremamente combattuta.
Nella finale dell’edizione 1982, invece, ebbi la meglio su di lui in tre rapidi set, ma non perché Steve avesse giocato male, ma perché io ero cambiato e molto migliorato come giocatore, e stavo cominciando passo dopo passo, ad esprimermi ad un livello superiore a quanto non avessi fatto in passato.
Da allora siamo diventati amici, e lo siamo rimasti. Ci siamo anche incontrati agli ultimi Masters di Londra a fine anno, a cui siamo stati entrambi invitati, e mentre stavamo andando in battello sul Tamigi dall’albergo all’02 Arena, siamo stati contattati via Facebook tramite videochiamata per un’intervista molto “live” ed altrettanto improvvisata, in cui abbiamo parlato entrambi delle due finali giocate a Melbourne. È stato molto divertente!
Johan, non tutto in quel particolare periodo storico dell’Australian Open filava per il verso giusto: organizzazione interna, montepremi offerto, e, ovviamente, il calendario. L’edizione del 1981 iniziò praticamente la vigilia di Natale. Un po’ meglio andò quella del 1982, che si svolse tra la fine di novembre e i primi di dicembre. Ti ricordi se ci furono mai pressioni da parte degli organizzatori del torneo, affinché voi giocatori disputaste incontri anche in giornate che dovrebbero essere assolutamente “off limits”, come il giorno di Natale o il primo dell’anno?
Il calendario era effettivamente, come hai ricordato, il problema principale. Ma francamente, non ricordo di avere mai ricevuto pressioni o imposizioni di alcun tipo da parte degli organizzatori o del direttore del torneo, e questo anche perché il tabellone dell’Open d’Australia nei due anni in cui vinsi io, era composto da 96 giocatori anziché 128, quindi potevamo usufruire di giornate di riposo. Ma dovrei ridare un’occhiata al tabellone di entrambe le edizioni per cercare di ricostruire il tutto con maggior precisione. Recentemente sono stato contattato da un fan che possiede entrambe le registrazioni della finale del 1981 e di quella del 1982 in formato digitale, ed era la prima volta in assoluto che le rivedevo a distanza di 35 anni. È stata un’emozione indescrivibile, e chissà che non sia l’inizio di qualcosa di nuovo, che mi aiuti a ricostruire con accuratezza giorni, date, dettagli. Rimandiamo tutto alla prossima intervista, e ti saprò dire di più senza tralasciare nemmeno un dettaglio!
Se ci fu un match prima di quelle due finali a te vinte al Kooyong, che portò definitivamente il tuo nome all’attenzione dei media, del pubblico, e di tutti gli appassionati di tennis, fu quell’incredibile semifinale dello US Open del 1980, che perdesti contro Bjorn Borg dopo essere stato avanti per 2 set a 0 (punteggio finale: 4-6 4-6 6-1 6-1 6-1)…
Venivo da un incontro di quarti di finale durissimo con Wojciech Fibak, che superai solo per 7-6 al quinto set. Non voglio cercare scuse, ma quando rimani in campo per così tanto tempo –e quello fu in assoluto uno dei match più lunghi di tutta la mia intera carriera, essendosi protratto per oltre quattro ore e mezza – sei soggetto a uno “svuotamento” a livello mentale. In quel periodo ricordo di essere stato molto in forma fisicamente, avevo giocato bene nella prima settimana, vincendo una partita dopo l’altra a suon di “serve and volley”, ma il match con Wojciech fu veramente duro. Forse troppo duro.
Il match contro Bjorn era cominciato al pomeriggio, quindi facemmo giusto in tempo a disputare i primi 2 set, che s’era già fatta sera. Fu allora che, complice il vento che s’era alzato su Flushing Meadows, le mutate condizioni di luce, e la stanchezza, soprattutto mentale, di cui risentivo dal match precedente, mi “sciolsi” e Bjorn finì per avere la meglio.
Non potevi permetterti di sbagliare con Bjorn, lui era il numero 1 del mondo in quel periodo ed era pronto a ribadirlo in qualunque circostanza, se non riuscivi a tenere il suo passo. Un osso davvero duro! (“tough cookie”)
Sarai anche stato sud africano e avrai giocato per gran parte della tua carriera per la federazione statunitense dopo essere diventato cittadino americano, ma in campo eri “italiano” dalla testa ai piedi: completo Ellesse e Superga Panatta, scarpe che ho recentemente visto sulla tua pagina Facebook!
Sono stato molto onorato di aver vestito Ellesse per quattro anni prima di passare a Le Coq Sportif. Ho sempre avuto una passione per i marchi europei, e penso che piacessi alle case europee forse per com’ero fisicamente, ma anche per il tennis che esprimevo in campo. Ho vinto due Australian Open utilizzando una racchetta Rossignol, un ottimo attrezzo. Anche Rossignol è una casa europea…
Prima di firmare un contratto con Ellesse, ero endorser della LaFont, casa “rivale” della Ellesse. Ho anche conosciuto Leonardo Servadio in un paio di occasioni, e mi ricordo che lo staff di Ellesse era sempre gentilissimo con me, mandavano qualcuno a prendermi all’aereoporto di Fiumicino, e nel viaggio verso Perugia, ci si fermava sempre in qualche fantastico ristorante italiano…sono un grandissimo estimatore della vostra cucina!
Sono stato onorato di aver vestito Ellesse perché il novero degli endorsers di questo storico marchio, all’epoca, includeva Guillermo Vilas, Chris Evert e Hana Mandlikova. Semplicemente un campione straordinario e due campionesse straordinarie, quindi penso possiate immaginare come mi sentissi a condividere questa sponsorizzazione con loro. Sarei molto contento anche di riallacciare i miei rapporti con Ellesse anche adesso che non è più un’azienda italiana. Per m,e all’epoca, Fila e Ellesse rappresentavano il vertice assoluto per quel che riguardava l’abbigliamento nel tennis, nessun altro marchio poteva competere con loro.
Per quanto riguarda le Superga Panatta, fu un altro grande onore poterle vestire! Adriano è stato un mito della sua generazione, in Italia era “Mr.Tennis”, la sua importanza era assolutamente pari se non adirittura superiore a quella di Bjorn Borg, e anche a livello internazionale era molto conosciuto e stimato. Mi fa piacere vedere che Superga le ha rilanciate, sembrerebbe con successo.
Che cosa significava per te in quegli anni, essere sudafricano? La tua scelta di non difendere più i colori della tua patria per diventare cittadino americano e dunque competere sotto un’altra bandiera, fu in qualche modo influenzata dalla complessa situazione politica del Sud Africa di quegli anni, e dal famigerato Apartheid?
Domanda molto interessante.
Non penso sorprenderò nessuno, incluso te, dicendo che ovviamente quello che succedeva a livello politico nel mio paese, la repressione e il razzismo contro i neri sudafricani, non mi piacevano affatto. È che non potevo obbiettivamente preoccuparmi fino in fondo di quello che succedeva nel Sud Africa di quegli anni, perché da Pongola ero partito per andare a studiare a Pretoria in un convitto privato. Lì gli studi erano duri, intensi, e l’obbligo di frequenza, anche per determinate lezioni o attività che si svolgevano nel weekend, continuativo. Quando sei in collegio o convitto che dir si voglia, vivi in una situazione di pressoché totale isolamento. Studi e fai poco altro. Quando non ero incollato ai banchi di scuola o in camera mia a studiare, ero in campo a giocare a tennis.
Non capii quanto odio e animosità esistessero contro il Sud Africa, ma soprattutto contro i cittadini bianchi sudafricani, fintanto che non raggiunsi l’Austria con Ian Cunningham e la sua famiglia, verso la fine del 1975. Lì mi resi conto che, mediaticamente e politicamente parlando, eravamo una nazione veramente “nell’occhio del ciclone”. Io non avevo assolutamente nulla a che fare con l’estabilishment politico del mio paese, ero solo nato lì.
Ero solo un ragazzo fresco di diploma in una scuola superiore, e non molto tempo dopo, quando diventai finalmente pro, la mia nazione si accorse improvvisamente di me e cominciò a rivendicare una sorta di “orgoglio” nei miei confronti come un “prodotto” dello sport sudafricano. Francamente me ne importava qualcosa, ma a livello sportivo, non certo politico. Ero nato in Sud Africa, OK, ma avrei potuto benissimo nascere altrove. Non si può scegliere dove nascere, dopotutto! Furono gli altri, ovvero le persone interessate a me solo per il fatto di essere un bianco sudafricano, e quindi una persona in un certo senso “scomoda”, visto quello che accadeva nella terra che mi ha dato i natali, a darmi contro.
Cominciai a ricevere minacce di morte. Bianchi sudafricani che mi volevano uccidere. Neri sudafricani che volevano fare altrettanto. In America, stessa situazione. Qualcuno mi voleva letteralmente “fare la pelle”.
Una situazione poco piacevole… ma quello che non capivo era veramente questo atteggiamento, davvero poco intelligente nei miei confronti: vinci e diventi in qualche modo famoso, e se da una parte questo ti gratifica e ti spinge a perseguire i tuoi obiettivi, dall’altra parte hai qualcuno che ti offende, ti insulta, ti minaccia di morte. E quel qualcuno non solo non ti conosce, ti giudica a priori senza neanche volerti prima conoscere e sapere chi sei, da dove vieni, quali sono i tuoi pensieri e punti di vista relativamente a determinati argomenti. È assurdo, inconcepibile. Guarda cos’è successo con l’elezione di Donald Trump negli USA. Tutto il mondo ha visto sul web, in tv, letteralmente ovunque, immagini di gente che andava in giro a sfasciare vetrine dei negozi solo perché gli Stati Uniti hanno un nuovo presidente. Ho trovato tutto questo assolutamente ridicolo, la mia reazione è stata “gente, ma avete voglia di scherzare?” (sic)
Arthur Ashe, persona eccezionale sotto molti, moltissimi punti di vista. Sfido chiunque a dire il contrario. Ma una volta affermatomi come uno dei migliori giocatori americani, in seguito al mio cambio di passaporto, intorno al 1984/85, dato che era capitano e spettava pertanto a lui fare le convocazioni, tentò di sfruttarmi come “arma politica” nel contesto della squadra americana di Coppa Davis. Risposi candidamente in entrambe le occasioni “no, grazie”. E non crediate che la mia risposta abbia suscitato chissà quale clamore a livello mediatico… fu al contrario, fatto passare tutto completamente sotto silenzio. Accuratamente filtrato.
Anche il tennis ha i suoi risvolti “politici”. C’è qualcosa di quantomeno curioso, indecifrabile, misterioso che si svolge “dietro le quinte”, e che qualcuno, più o meno volontariamente, forse per paura, o forse per una sorta di costrizione, vuole far passare inosservato. Anche questa è politica, anche questa è informazione. Ma di certo, manipolate. Non del tutto pulite.
È anche per questo che oggi guardo non con disprezzo, perché là fuori c’è anche tanta gente onesta che tenta di fare ogni giorno il proprio lavoro in modo altrettanto onesto, ma di sicuro con profondo scetticismo, ai media. E credo di sapere più o meno con certezza chi è “pulito” e chi no. Non credo alla prima cosa che leggo o che mi vengono a raccontare. Ci sarà sempre qualcuno che tenta di distorcere fatti o affermazioni che riguardano il quotidiano.
Possono tentare di prenderti in giro, ma se, come me, hai ricevuto una buona istruzione, hai dei principi, un’etica, dei valori, non c’è modo che possano averla vinta su di te. E in questo i miei genitori sono stati assolutamente esemplari, mi hanno dato tutto quello che ho appena citato. Poco importa che una persona venga dalla Cina, dal Perù, dalla Russia o dal Sud Africa, se ha dei solidi valori su cui contare. Non so se ho risposto come avrei dovuto alla domanda che mi hai fatto, ma mi sento di dire che sono comunque fiero di essere diventato un cittadino americano. Credo lo sarei stato altrettanto se fossi stato un cittadino sudafricano a partire dal 1994, quando finalmente il Sud Africa ha finalmente avuto le sue prime, vere e proprie, elezioni democratiche. Vorrei dire, inoltre, che sono stato coinvolto in maniera assolutamente ingiusta ed immeritata, in una “tempesta di fuoco politica” dalla quale mi sono sempre totalmente dissociato, e su cui non rivendico, pertanto, il benché minimo coinvolgimento.
Grazie Johan.
A voi, a presto.
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