TENNIS – WIMBLEDON – Di JASON D’ALESSANDRO. Alle 15 e 18 minuti ero ancora a piazza del Popolo. A piedi, direzione Trastevere, dove abito. Federer sotto di un set e mezzo.
Continuo a controllare il mio smartphone il quale, impietoso, all’altezza di ponte Garibaldi, mi rivela tre palle break per Cilic a metà del terzo set. Come credo la maggior parte di colleghi e appassionati penso “è finita”. Mi fermo a prendere una granita al caffè e accorcio il passo per non far cadere la panna. Mi cade ugualmente. Entro a casa più che sudato. Accendo la tv e, incredibile – forse nemmeno troppo considerando il soggetto – Federer ha portato a casa il terzo set. “Ora mi guardo la partita”, penso, “mi guardo questa grande rimonta”.
Ancora si sente l’eco delle parole dello svizzero: “mi diverto così tanto a giocare a tennis” e si vede, eccome se si vede. Roger, perlomeno da quando ho acceso la tv, colpisce fluido, mette a segno qualche vincente, sbaglia ma gioca bene, sta salendo col servizio, non manca di stupire con quelli che David Foster Wallace chiamava “momenti Federer, quei momenti “tanto più intensi se un minimo di esperienza diretta del gioco ti permette di comprendere l’impossibilità di quello che gli hai appena visto fare”. L’inerzia è dalla sua e, nonostante si trovi a servire per salvare uno, due, tre match point, qualcosa nell’aria ci dice – mi prendo la libertà di scrivere a nome anche di qualche lettore – che rimarrà in partita una, due, tre volte. Perché Roger questa partita… la vincerà.
Nulla togliere a Cilic… non ho ancora visto la prima parte del match ma da come ho capito è stata a senso unico, con il croato diretto verso la semifinale. Ho acceso il monitor quando il vento era già cambiato, quando Capitan Roger aveva cazzato la randa e dispiegava le vele. Il quarto set è un’ora bollente, lo svizzero, spinto anche dal pubblico, si salva più volte dal precipizio (facendola passare come una cosa normale) e ottiene il tie break. Si gioca punto dopo punto, vince contro il falco un punto determinante degno di una sceneggiatura di Dario Argento, poi l’errore di Cilic. Si va al quinto. Roger – con il permesso di Kobe Bryant, è un “white mamba”, ricordiamo che siamo ai Championships, un “black mamba” non sarebbe ammesso – aspetta il momento giusto e affonda quando deve: break all’ottavo gioco. Poi serve per il match, non trema, è casa sua, vola in semifinale.
Cronaca del match a parte, Roger è bello, ogni torneo di più. A Roma un campione ferito. Le sconfitte nei tornei successivi. Poche, troppo poche partite giocate prima di Wimbledon ma eccolo qua. Ancora una volta a incantare e a ricevere i “grazie” di chi questo sport, come lui, lo ama. Quasi commuove vederlo correre a destra e sinistra perché è evidente l’amore che ci mette. Sembra quasi pensare “se perdo… pazienza”; sembra, dopo un periodo di transizione in cui le aspettative erano ancora alte nonostante si volesse far credere il contrario, abbia fatto un ulteriore passo verso la coscienza della sua grandezza. Sembra tornato ragazzo, sembra più vicino a tutti noi: scrolla le spalle, lascia cadere la racchetta, brontola per poi scusarsi con l’avversario, allarga le braccia o si piega scuotendo la testa dopo un errore. Sembra essersi rilassato ancora un po’. Mirka, Ljubicic, papà e mamma “soffrono”, ma ora è diverso. Prima, forse, sentivano la pressione della storia, ora pare si sentano protagonisti di un film, uno di quelli in cui il campione fa l’impresa.
E il campione, imprese a parte, si diverte, l’ha detto chiaramente. Si diverte, diverte e continua a incantare. E noi? Beh, noi lo ringraziamo ancora una volta. Lo ringraziamo anche per questo.
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