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Australian Open, Hewitt e l'ultimo cambio campo della sua carriera

TENNIS

Dal nostro inviato a Melbourne, Luigi Ansaloni

MELBOURNE. Mentre la Rod Laver Arena stava aspettando la fine della sua carriera, che sarebbe avvenuta per mano di David Ferrer qualche minuto dopo, Leyton Hewitt era seduto sulla panchina e si guardava un po’ intorno, quasi incurante degli spettatori che di fatto aspettavano il cadavere della sua vita sportiva.

 

Smartphone e Tablet pronti ad immortalare quella fine, da tramandare ai posteri con l’immancabile “io c’ero”, da narrare a cena con gli amici, ai figli e ai nipoti nel presente e in futuro. Chi vi scrive avrebbe pagato qualsiasi cosa (magari qualsiasi cosa no, ma molto di sicuro) per sapere cosa frullasse nella testa di Hewitt in quel momento. Quella che molti hanno preso come una festa, è stato pur sempre un addio, e gli addii si sa, poco o tanto fanno male. Lo dice la parola stessa: addio è “una forma di saluto usata come congedo, perlopiù definitivo”, più semplicemente è il salutare un qualcosa che non tornerà mai più. Ci siamo passati un po’ tutti, in fondo: l’ultimo giorno di liceo, l’ultimo giorno di un’estate che “vorrei potesse non finire mai”, la laurea, la fine dell’adolescenza, e così via. Possiamo solo provare ad immaginare, cosa sia passato per la testa di “Rusty”.

Forse avrà pensato a quante volte si era seduto, in quella panchina, non solo sulla Rod Laver Arena, ma in giro per il mondo. A Wimbledon, vinto nel 2002, a New York, vinto nel 2001, a Parigi, dove non ha mai fatto granchè. A Melbourne era seduto sulla stessa panchina, quando nel 2005 Marat Safin gli spegneva nemmeno troppo lentamente il sogno di diventare il primo australiano dai tempi di Mark Edmondson, 1976, a vincere lo slam di casa. Occasione che sapeva essere irripetibile o giù di lì, visto che ci trovavamo in piena epopea Federer, e lo svizzero, dal 2003 in poi, la palla gliel’ha fatta vedere davvero poche volte. Come quella finale a New York, nel 2004: 6-0 7-6 6-0, in una prova di forza ai limiti della perversione.

Ed era sempre seduto su quella panchina, sempre sulla Rod Laver Arena, quando da numero uno del mondo perse nel 2003 dall’allora semi sconosciuto Ivo Karlovic. Qualcuno in tribuna stampa ricorda quella partita: “Cavolo, che sorpresa che fu”, dice un collega argentino, aggiungendo: “Era un ragazzo, ma era numero uno del mondo e quella volta non ha retto la pressione”. Chiudi gli occhi e pensi che oh cavolo, quella partita te la ricordi pure tu benissimo, e che anche tu eri un ragazzo e ora non lo sei più, come Rusty seduto su quella panchina. E inevitabilmente ti ritrovi a pensare che hai già salutato nel giro di pochi anni altri due ex numeri uno al mondo, Safin e Roddick, e che tutti hanno la tua età.

Forse Hewitt su quella panchina più semplicemente avrà pensato al futuro, al suo prossimo impegno come capitano di coppa Davis. Tutto lo Stato Maggiore del tennis Australiano era qui per lui: da Kokkinakis, presente e futuro, a Pat Rafter, passato glorioso, fino ai magnifici australiani come Ken Rosewall, Tony Roche e compagnia bella. Chissà se è proprio su quella panchina che ha pensato alla Vicht, la sua esultanza brevettata, la mano aperta a mò di becco d’anatra vicina la faccia. 

Uno sguardo verso i suoi tre figli e la moglie, Bec. Già, Bec. Sempre su quella panchina della Rod Laver Arena, Leyton ci si è seduto tante, tantissime volte insieme a Kim Clijsters, la belga sua promessa sposa fino al 2004. Erano la coppia del circuito, ed era tutto pronto per le nozze. Mai celebrate. Si lasciarono a fine 2004, poche settimane dopo Leyton era accanto a Bec, che nel 2005 rese Rusty padre per la prima volta. 

Pascal Maria dice “Time”, Hewitt si alza e va incontro al suo destino, quello di essere sconfitto, per l’ultima volta, nella sua carriera. Non dovrà mai più sedersi in quella panchina da giocatore. Si alza, la guarda e se ne va. Perderà, lo sa che perderà, che è tutto finito, che sta tutto per finire. Ma sa anche  che non dovrà mai più perdere, nella sua vita da giocatore. 

Luigi Ansaloni

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