Carota Meccanica, il film. Un remake in chiave tennistica di una pellicola che ebbe uno straordinario successo negli anni Settanta, grazie alla firma illustre di Stanley Kubrick e alla bella prova di un giovane attore, Malcolm McDowell. A Clockwork Orange, ma nel tennis di oggi le arance sono diventate carote. Se ne colgono sul campo, ma ne spuntano anche sugli spalti, si vede che dopo la nascita della sezione californiana dei Carota Boys, anche la filiale di Miami ha preso forma, anch’essa quasi tutta al femminile.

Qualche aggiustamento, doveroso, ha subito la trama, del resto sono cambiati i tempi e i protagonisti. E per quanto assatanato nell’impedire a Medvedev di costruire una qualsiasi parvenza di tattica con il suo tennis potente e a lunga gittata, per quanto feroce nel fare a pezzi qualsiasi ipotesi di passante, o di cross vincenti, non si può certo accusare Sinner di far uso della violenza (come Alex DeLarge, il personaggio di Kubrick) per raggiungere i propri obiettivi. Almeno, credo… Oddio, qualcosa di violento l’insieme del match l’ha mostrato, ma non si è trattato delle scene tacciate di “iper realistica violenza” che il regista premio Oscar inserì nel suo film.

Quanto l’osservazione di come un russo vincitore di Slam, che fu numero uno del mondo, e primo (allora forse unico…) avversario di Novak Djokovic, al punto da sfilargli dalla racchetta un Grand Slam quasi fatto, possa essere allontanato dai piani alti del suo sport tra i botti sonori prodotti dalla racchetta di Sinner e traccianti avvelenati del tutto imprendibili. Forse non ho assistito alla fine di Medvedev come tennista d’alto bordo, questo no, comunque sarebbe troppo presto per dirlo. Ma non posso negare che sul 6-1 4-1 il pensiero di stare assistendo alla fine di Medvedev come possibile antagonista dei più forti – che restano Sinner e Alcaraz, malgrado il brutto stop nei quarti dello spagnolo contro Dimitrov, poi finalista – mi sia passato per la testa a titillare i miei neuroni tennistici. Esattamente come i titoli di coda di un film.

È stata, la vittoria di Sinner, come assistere a un evento naturale. Jannik lo tsunami… Con il risucchio delle acque che si allontanano dalla riva per decine di metri, mentre d’improvviso, poco al largo, si forma un’onda altissima, gigantesca, impetuosa e foriera di disastrose conseguenze. È difficile descrivere fuori dagli schemi del “colore giornalistico” che cosa sia successo nella semifinale più attesa del secondo Sunshine Double, a Miami. Vi sono frasi, anche dal valore inconfutabile, che non riescono a tramandare tutto il senso d’inutilità, di costernazione, quasi di vergogna che Medvedev stava provando in quel momento. Altrimenti basterebbe dire che c’era, in campo, soltanto Sinner, e l’altro chissà dov’era andato, magari era rimasto negli spogliatoi, acquattato. Ma non è esattamente così che sono andate le cose. Sinner ha dilagato dal primo minuto, ha preso tutto il campo, anche quello del russo, per condurre le proprie geometrie, ed è stato talmente imperioso nel farlo da spezzare in due le resistenze di Medvedev, e ridurlo a una marionetta, con le gambe che s’incrociavano, l’aria sbandata e come unica preoccupazione quella di far sapere al proprio angolo, a coach Cervara e alla moglie Daria, che non sapeva più che cosa fare, che le palline erano come radiocomandate e finivano tutte inevitabilmente sulle righe, che lui ci stava provando ma l’altro neanche lo degnava di uno sguardo.

Povero Daniil, orso spelacchiato e malvissuto, costretto a subire una lezione così dura da un ragazzo che aveva battuto sei volte di seguito, prima di ritrovarselo finalmente adulto, e maturato. Un tennista diverso da prima. Lo superò per l’ultima volta proprio a Miami, nella finale di un anno fa. Ed ecco la prima sconfitta prendere forma a Pechino,  e subito dopo la seconda, a Vienna, sempre in finale. La terza a Torino, nella semifinale, dopo che Daniil aveva annunciato di aver studiato bene il gioco dell’italiano, e di poterlo affrontare con angosce assai minori rispetto ai due precedenti match. Niente da fare… Dolorosa, quasi da spezzare il cuore, la finale degli Australian Open, con i due set di vantaggio che Sinner ha trangugiato per presentarsi una volta di più “uomo solo al comando”. Ora questa lezione, brutale, più simile a una sassaiola.

Eppure, in due momenti, nel corso del match, Medvedev ha avuto la possibilità di riguadagnare terreno. Nel terzo game del primo set ha avuto due palle break, che Sinner gli ha annullato quasi fosse gioco forza farlo. E lo stesso è accaduto all’inizio del secondo, su un’altra possibilità per il break, e lì Jannik ha sfoderato un servizio vincente, che quasi ha fatto roteare Medvedev su se stesso, poi un ace per portarsi in vantaggio, e ancora un servizio vincente per chiudere il conto. A niente è servito il finale della partita, che ha visto il russo meglio organizzato, capace per una volta di tenere il ritmo del palleggio senza farsi sovrastare. È migliorato il punteggio, ma Sinner è rimasto lontano, irraggiungibile, quasi appartenesse a un altro tennis. Ed è questa la considerazione più disperante che Medvedev è stato costretto a subire.

Match perfetto, da parte di Sinner. Nessuna sbavatura, solo punti, quasi a ogni colpo. Miami è un torneo cui tiene molto. È alla terza finale, ma non l’ha ancora vinto. Ci riproverà oggi contro Dimitrov, che ha sconfitto due volte di recente (con un vittoria del bulgaro molto lontana nel tempo), e lo farà con tutto il trasporto dato che un successo gli varrà il secondo posto in classifica. Dimitrov sta vivendo la terza o quarta rinascita della carriera. La vittorie su Alcaraz e Zverev dicono che vive uno di quei momenti in cui è capace di somigliare davvero a Federer… Dovrà stare attento, Sinner. Le condizioni sono le stesse del match con Medvedev…

Il resto è già nel libro delle statistiche. Ventunesima vittoria della stagione, contro una sola sconfitta. Quattro tornei giocati, tre finali e una semifinale. Carota Meccanica sta conquistando il tennis.

Daniele Azzolini

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