Chiariamo subito una cosa: David Ferrer non è (stato) un tennista normale.
A meno che per voi vincere 734 partite a livello ATP, 27 tornei, arrivare per sei volte tra i migliori quattro di uno Slam (con una finale a Parigi) ed essere numero 3 del mondo non rientri nell’ordinarietà delle cose.
No, David Ferrer è stato un campione. Vittima prediletta di quel terrificante luogo comune secondo cui il “talento” è un’altra cosa. Perché se non accarezzi la palla come sa fare Federer, o anche un Paire e perché no un Fognini, allora sei automaticamente uno tutto “cuore e polmoni”. Un’etichetta che non ti togli più di dosso e che ti accompagna per tutta la pluridecorata carriera.
Ha saputo vincere ovunque David: sia all’aperto che indoor, 13 titoli sulla terra, 12 sul veloce (tra cui il più importante a Bercy), e anche due sull’erba sfiorando per giunta una semifinale a Wimbledon. E ha battuto (quasi) chiunque: cinque volte Djokovic, addirittura sei Nadal, di cui lo accusavano di essere un “vassallo”, che ha sconfitto pure sulla terra. Gli è mancato solo un acuto contro Federer.
Dopo essersi regalato un’ultima bella vittoria nel derby con Bautista Agut, la sua carriera è finita ieri sera a Madrid contro Alexander Zverev, esponente dell’ultima delle tre generazioni di giocatori che Ferru ha affrontato nel suo lungo viaggio: dagli Agassi, Kuerten, Hewitt, Roddick, Nalbandian passando per i Berdych, Wawrinka, del Potro, Nishikori fino ai novellini della Next Gen.
Da oggi David Ferrer è ufficialmente un ex e tra un po’ di tempo quando qualcuno andrà a rileggere i suoi risultati magari strabuzzerà gli occhi dallo stupore. Vagli a spiegare che David Ferrer non era solo corsa e generosità. Che non ha vinto più di quanto meritasse. Che quella finale al Roland Garros non è stato un premio alla carriera ma il giusto approdo per uno dei più forti in circolazione. Che no, David Ferrer non è stato un tennista normale.
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