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ATP, a new hope: inizia l’era di “bimbo” Zverev

Siamo nell’Era di Bimbo Sascha, alla fine. Gli indizi ci sono tutti. Vi siamo entrati senza fracasso, senza spintoni, senza annunci clamorosi, e ora siamo qui a dirci che, in fondo, doveva succedere, che gli anni passano per tutti e nel divenire delle cose i cambiamenti sono il sale della vita. Lui, il giovane Zverev, è ancora lì, sul campo, steso a pancia in giù, quasi in un atto d’amore. Il pubblico applaude senza rendersene conto. Nessuno pensava che Djokovic perdesse queste Atp Finals, nessuno riteneva Sascha Zverev già in grado di disinnescare il serbo tornato da poche settimane al numero uno. Non c’era anima viva disposta a puntare un solo penny sulla doppia lezione servita ai Favolosi di una volta, prima Federer, poi Djokovic. Sascha ha vinto le Finals dominando i due che intorno a questo titolo avevano costruito una leggenda. Ma la Storia del Tennis segue percorsi tutti suoi, e ancora una volta ha dato una risposta differente, ha spinto sulla ribalta il ragazzino meglio introdotto. Zverev ha bussato alla porta del Club dei Campioni, e loro gli hanno detto di accomodarsi.

Le Finals non sono uno Slam, ma possono vincerle solo i più grandi. Zverev dovrà ancora percorrere un bel tratto di strada, ma ora sa quale sarà la meta finale. Vittorie così ti cambiano dentro, anche se sei un predestinato. Finché non le cogli, non credi di esserne capace. Ora Sascha ha capito.

Curioso match. Otto game in copia e incolla con l’ultimo confronto giocato, appena martedì scorso. Djokovic il primo a battere, Sascha all’inseguimento, ma con passo sicuro, senza foga. Sembrava quasi che Zverev volesse ricominciare da lì, da quel nono game con il Djoker al servizio, durante il quale quattro sere fa aveva storpiato il suo tennis, facendosi cogliere dal batticuore davanti a due palle break che lo avrebbero trascinato di peso alla vittoria nel primo set. Chissà quanto gli sono costati, quei due strafalcioni, e chissà quante tirate d’orecchie gli sono venute da Mastro Lendl, che simili trascuratezze non le ha mai perdonate, a cominciare da se stesso. E così, il bimbo smaniava per mostrare i progressi compiuti, e come tutte le reprimende fossero state recepite, catalogate e trasferite nella memoria centrale. Ha preso di mira il rovescio del Djoker, forse più fragile alla lunga del dritto; ha aperto varchi che di norma il gioco chiuso del serbo non offre, e su quelli ha ritrovato la palla break (la prima del match) con la quale misurarsi. E l’ha giocata bene, questa volta, a botta sicura. Poi si è girato compunto verso l’angolo del suo maestro e ha chiesto con gli occhi se questa volta avesse fatto bene. Il sì di Lendl ha trasformato in colpi di spingarda i successivi servizi di Sascha. Tre ace. E finalmente il set…

Lì Djokovic ha capito che non sarebbe più stato il match della sua sesta vittoria nel Master. Sascha guidava gli scambi, lo incalzava, e quel che è peggio per il serbo, non aveva paura ad avventurarsi oltre il quindicesimo, addirittura il ventesimo scambio. Il secondo set ha subito messo in piazza tre break, due per Sascha, ormai libero di colpire. Tre a uno, e Djokovic nelle vesti dell’inseguitore, un ruolo che sperava di non dover più recitare. L’ultimo break è giunto su un rovescio non facile da tenere in campo. Il marchio di fabbrica di un ragazzo costruito per vincere, e un po’ anche per stupire.

Un match costruito su un impianto solido, quello di Zverev. Pianificato nei minimi dettagli, nel quale gli strateghi di casa Zverev hanno dato spazio a tutte le doti del “ragazzo che un domani sarà numero uno”. Un servizio da tenere sempre ben vivo, variandolo spesso ma senza assumere rischi non calcolati; un dritto da curare nelle traiettorie, alzandole di quel tanto da renderle sicure, eppure infide per Djokovic; e un rovescio invece più libero di colpire a piacimento.

È il suo colpo migliore in fondo, e su quello a Bimbo Sascha è stata concessa piena libertà. Del resto, c’è una famiglia di autentici architetti del tennis, dietro il ragazzo costruito per vincere. Papà Alexander è stato giocatore professionista, mamma Irina è maestra di tennis. La famiglia si trasferì ad Amburgo nel 1991, spinta dagli entusiasmi di una Germania senza muri. L’idea fissa era quella di dare forma a un numero uno. Il primo prodotto venne abbastanza bene, non benissimo. Misha, dieci anni più di Sasha, aveva colpi incantevoli e carattere volubile. Sasha invece è venuto su alla perfezione. Modernissimo nel tennis, che è violento senza sforzo, il carattere forgiato in una lega di acciaio e tungsteno, una corazza da super eroe a mascherare i sentimenti e renderlo impenetrabile alle delusioni. È ancora giovane, molto giovane… Ma prima o poi, anche questa gli passerà.

Daniele Azzolini

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