di Daniele Azzolini – Quando chiudono il tetto, il Centre Court si tinge di tempera e assume i colori di una camera da letto. Guardi la volta mentre si chiude, nel tramestio dei colombi che si affannano verso una via di fuga, e ti sembra che sia così da sempre. Wimbledon è esattamente questo, immutabile mutante, uguale a se stesso anche nelle cose che prima non c’erano.
L’attuale sede, in Church Road, venti anni fa appariva spoglia, quasi essenziale. L’hanno ricostruita in buona parte, e a nessuno verrebbe in mente di definirla “nuova”. È come se a Wimbledon costruissero vecchi stadi moderni, antichissimi tetti ad alta tecnologia, antiquati maxi schermi digitali, persino l’ologramma di John McEnroe che guida il pubblico fra gli stipetti degli spogliatoi di una volta, ricostruiti all’interno del museo, ha un che di eterno. Wimbledon tiene a mente tutto, date e fatti che non dovrebbero interessare ad alcuno, ma che in fondo riscaldano il cuore. C’è chi li ha annotati, trascritti, conservati, considerandoli importanti, forse indispensabili. L’arte della memoria è l’attenzione. Dell’una e dell’altra, Wimbledon ha fatto la propria roccaforte. Ed essere al passo con i tempi, conservandosi, è ormai una sfida.
Fra le tante date (si festeggiano persino i dieci anni di sponsorizzazione con una banca giapponese, riporta senza alcun sarcasmo la brochure del torneo), una importante c’è. I Championships nacquero nel 1877, cento quarant’anni fa. La storia è nota, e c’è chi conosce a memoria vincitori e vinti dello sport di cui i britannici si sentono maestri (in realtà, solo uno dei tanti). Meno conosciuti, forse, i risvolti, le ricadute, che da lì presero forma. Wimbledon è un laboratorio di scienza, oggi autorevolissimo. Wimbledon è fra gli eventi che dettero vita a una nuova forma letteraria, a se stante, ancora poco considerata ma attiva e fiorente: la scrittura sportiva. Furono in sei a riunirsi in società nella sede dell’editore del Fields, desiderosi di avere un club tutto per loro, che li riunisse nei giorni di svago e sottolineasse il livello di notorietà raggiunto dal giornale, un settimanale a quei tempi. Tre dei soci furono incaricati di cercare il posto e lo trovarono a un’ora e mezza di carrozza dal centro di Londra. Troppo lontano, fu l’appunto degli altri. Ma al giusto prezzo, l’argomentazione vincente.
L’All England Croquet Club nasce il 23 luglio 1868. Il tennis era ancora un gioco da scampagnata, seppure dai trascorsi nobiliari, ed entrò a far parte della vita sociale del club solo nel 1877, l’anno del primo torneo e del definitivo conio: All England Lawn Tennis and Croquet Club, AELTC l’acronimo.Erano gli anni in cui lo sport (tutto) veniva codificato. Si davano regole definitive al calcio, al rugby, e anche al tennis (al Marylebone Club, il primo a ospitare un torneo). L’attenzione verso l’attività fisica all’aperto faceva parte di quel progetto, ben più ampio, di appropriazione di tutto ciò che fosse appartenuto alla nobiltà, che l’emergente borghesia industriale conduceva con il fervore che l’ha spesso contraddistinta. Terre, modi di dire, comportamenti, certi agi tipici di chi se li poteva permettere. I soldi erano già passati di mano, la vera ricchezza era ormai nelle tasche di commercianti e industriali. Su mode e tradizioni, invece, i borghesi alacremente lavoravano per portarli a sé e imporsi del tutto sulla scena.
Il positivismo era la filosofia che faceva da carburante, perché poneva l’uomo al centro di ogni progresso, con cinismo e senza troppe sottilizzazioni. E lo sport che proponeva sfide fra uomini si ritrovò presto in prima pagina. Anche la vittoria di Gore, la prima ai Championships (i Campionati, tout court), fu celebrata sulle pagine dello stesso Fields. Esaltando il vincitore, l’uomo, il suo sforzo, la sua attitudine, il suo ingegno. Proprio come accadeva nelle prime cronache del calcio e del rugby. Era la nascita del giornalismo sportivo e di un modo di scrivere sui vincitori che attingeva a piene mani dall’epica, genere letterario sepolto nell’anno Mille con i primi aneliti di quella Langue d’Oil che condusse verso il romanzo. Quest’ultimo scandisce i tempi della vita, creando personaggi e dialoghi in divenire. L’epica poneva al centro di tutto l’eroe, divinizzandolo. La scrittura dello sport collegò i due generi, trattò in divenire la cronaca e concesse sembianze divine ai vincitori. Più facile descrivere il laboratorio dei Championships.
Wimbledon è oggi al centro di grandi attenzioni dal mondo dell’agronomia, per le macchine che ha inventato (nebulizzanti, a getti d’aria, assorbenti), e per le teorie sulla composizione di un prato perfetto. La storia del torneo è fatta di poa pratensis, di oregon bruna, oggi di segale. Misture che hanno permesso di stendere prati robusti e conformi ai voleri degli organizzatori. Dall’erba sconnessa e sdrucciolevole, che imponeva di giocare al volo per evitare pericolosi rimbalzi della palla, a quella compatta e più lenta di oggi, che ha suggerito il conio di “erba battuta”. In realtà, una via di mezzo alla fine è stata trovata, confermando la linearità dei rimbalzi, ma con una maggiore concessione alla velocità della palla. Il tutto attraverso la scelta accurata delle sementi (sono stati appena nove, in 140 anni, i capi giardinieri a Wimbledon) e dei millimetri su cui operare il taglio. Da quattro ai cinque.Restano detti antichi… Un buon prato si fa con un anno di lavoro, e cento anni di piogge. Ed è forse vero. Di sicuro, per una buona carriera basta un anno da protagonisti a Wimbledon.
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