Si narra che Sisifo fosse il più scaltro degli uomini. Quando cercò di ingannare gli dei stessi Zeus lo precipitò nel Tartaro, condannandolo a sospingere su per un’erta china un masso gigantesco, che appena giunto in cima precipitava costringendolo a ricominciare daccapo. Per l’eternità.
Proviamo ad attingere a questo mito per interpretare l’inizio di stagione di Andrew Barron Murray, la sua prima da numero uno del mondo dopo un’attesa durata dieci anni.
È forse presto per dirlo ma comincia a farsi strada il sospetto che qualche piccola crepa si stia aprendo nel suo scudo dopo l’esaltante corsa che lo ha portato in cima.
In Australia e a Indian Wells, i due appuntamenti più importanti prima di Montecarlo, il suo scalpo penzolava alle cinture di Zverev il Vecchio e di Vasek Pospisil ben prima dei turni decisivi.
Oggi l’uomo di Dunblane ha perso ancora troppo presto sul Centrale più chic del mondo contro il mancino spagnolo Albert Ramos Vinolas. E il modo col quale ha affrontato i due match point lascia intendere che la cosa non gli importasse più di tanto. Più di tanto o proprio più?
Sul primo ha seguito a rete un dritto normale, gli è andata bene solo perché l’altro non credeva a tanta grazia e ha messo largo un passante di rovescio che in quelle condizioni gli spagnoli giocano a occhi chiusi fin dalla pubertà. Sul secondo, quello decisivo, ha azzardato una smorzata che si è spenta in rete con Vinolas che era già lì da mezz’ora. Ha avuto fretta.
Ed è questo il termine chiave perché il tennis di Murray non conosceva questa parola. Quante volte si è detto che uno col suo talento avrebbe potuto proporre un gioco scintillante invece di limitarsi a remare dal fondo sfiancandosi in recuperi pazzeschi, esaltanti certo ma compiuti a prezzo di fatiche immense? Costanza, regolarità, pazienza e fatica, soprattutto tanta fatica, sono sempre state le armi con le quali lo scozzese ha scelto di duellare sui rettangoli di gioco e quando è così arriva un momento in cui non ne puoi più, un attimo nel quale le vittorie non bastano a ripagarti del logorio fisico e mentale che il tuo gioco richiede. Solo un attimo, ma basta quello.
Improvvisamente non hai più voglia di maratoneggiare per il campo, ti concedi qualche attenuante di troppo, cominci a guardare il mondo oltre la rete e il gioco è fatto.
Non è la prima volta che lo vediamo accadere.
Bjorn Borg abbandonò di fatto il tennis a venticinque anni dopo la seconda finale persa contro McEnroe a Flushing Meadows 1981. John racconta che già due mesi prima a Wimbledon “ebbi la netta sensazione che non gliene importasse più niente”. Il suo erede Wilander ne seguirà le orme anche in questo. Campione diciottenne al Roland Garros 1982 succedendo all’Orso, conquistò il primato nel 1988 aggiudicandosi tre Slam per poi precipitare in classifica.
E se è successo a campioni di tanto nomine…
Diverso è invece per chi oltre alle vittorie trae soddisfazione dal proprio talento, dal fatto di saper fare di tutto con la racchetta in mano, dal dono di poter dipingere capolavori ad ogni tocco. Ed ecco un imbiancato McEnroe che ancora oggi ha voglia di mettersi in braghe corte a litigare con l’arbitro per un punto inutile o un Federer che a dispetto di rughe e ginocchia passa mesi a sudare e costruirsi rovescio e fiducia nuovi per l’ennesimo trionfo.
È dura spingere un centimetro dopo l’altro l’enorme masso sulla montagna, le mani sbucciate grondanti sudore, se di fianco a te c’è chi cammina leggero in pianura, asciutto come un biscotto.
Rimanere schiacciati è solo questione di tempo.
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