di FABRIZIO FIDECARO –
Giusto vent’anni fa Pete Sampras concludeva per la prima volta in carriera una stagione come numero uno del ranking mondiale. Si sarebbe confermato in vetta per altre cinque annate di fila, battendo il primato di Jimmy Connors e stabilendone uno tuttora insuperato.
Eppure, specie all’inizio dell’ascesa, per Pistol Pete non furono tutte rose e fiori. Affacciatosi al 1993 da numero 3 Atp, vinse subito il torneo di Sydney, in finale su Thomas Muster, ma agli Australian Open uscì in semi per mano di Stefan Edberg, che perse nel match clou con Jim Courier. Passò comunque davanti allo svedese in classifica, tornando secondo dietro a Big Jim, com’era già stato brevemente a fine 1992. Incappò poi in due nuove sconfitte impreviste, nella semi di Filadelfia con un Ivan Lendl quasi 33enne e negli ottavi di Indian Wells con il russo Alexander Volkov.
Pian piano, però, il 21enne di Washington entrò in forma. A Miami fece suo il titolo, liquidando nell’ultimo atto il connazionale MaliVai Washington, e la successiva vittoria a Tokyo (con un triplo 62 a Brad Gilbert) gli regalò i punti sufficienti per operare il sorpasso al vertice. Il 12 aprile 1993, così, Pete divenne per la prima volta numero uno del mondo.
La leadership, a dire la verità, non appariva del tutto meritata. L’unico Slam conquistato dall’americano restavano gli US Open del 1990, ormai quasi tre anni prima, e da allora nei Major era arrivata solo un’altra finale, sempre a Flushing Meadows nel 1992, quando a prevalere era stato Edberg. Courier, invece, si era aggiudicato tre dei cinque Slam precedenti (o due degli ultimi quattro, per restare a quelli considerati nel ranking), per cui, al di là dello stile di Jim, senza dubbio meno gradevole dal punto di vista estetico, in parecchi storsero il naso vedendo Sampras al primo posto. Il ragazzo, pur dotato di talento straordinario, non aveva ancora dimostrato di possedere una testa all’altezza della fluidità dei colpi.
Si pensò a uno dei soliti calcoli poco sensati del computer, ma Pete era pronto a certificare di non trovarsi lì per caso. Appena incoronato, ebbe subito la chance di affrontare Courier, nella finale di Hong Kong, cui approdò dopo aver rischiato grosso in semi con l’israeliano Amos Mansdorf. Ne venne fuori un incontro combattutissimo, che Sampras riuscì a fare suo al tie-break decisivo, zittendo, almeno per il momento, i detrattori. I quali, però, tornarono a farsi sentire durante la primavera sulla terra, nel corso della quale Pete andò incontro a una serie di sconfitte, mentre Jim confermava la sua innegabile solidità. Battuto in semi ad Atlanta da Eltingh e a Roma da Ivanisevic, Sampras fu eliminato nei quarti del Roland Garros da Sergi Bruguera (che già aveva avuto la meglio nella World Team Cup, peraltro poi vinta comunque dagli Stati Uniti). Lo spagnolo sorprese anche lo stesso Courier in finale, conquistando il primo dei suoi due titoli parigini.
Sampras restava numero uno, ma occorreva una svolta: bisognava sbloccarsi ai massimi livelli. L’occasione gli venne da Wimbledon, cui Pete si affacciò dopo aver perso malamente all’esordio al Queen’s Club con il sudafricano Grant Stafford. A Church Road partì lento, cedendo il parziale d’avvio all’australiano Neil Borwick al primo turno, ma, complice un tabellone non impossibile, arrivò ai quarti senza ulteriori difficoltà. Qui lo attendeva il campione uscente, colui che già aveva superato nella finale newyorkese del ’90 e che si sarebbe rivelato il suo più grande rivale nel corso dell’intera carriera: Andre Agassi. Sampras gli rifilò un doppio 62 iniziale, ma il Kid, ancora dotato di biondo toupet, recuperò, portando il match al quinto. Era il momento di provare a tutti di saper spiccare il volo, e Pete lo fece, spegnendo le velleità dell’avversario con un 64 conclusivo. In semi fu il turno del tre volte vincitore dei Championships Boris Becker, sconfitto per 76 64 64 con una prestazione di grande autorità. In finale riecco Courier, in modo piuttosto inaspettato, visto che il rosso di Dade City non si era mai trovato granché a suo agio sull’erba. Big Jim vendette cara la pelle, ma dovette soccombere in quattro set, sancendo così la prima delle sette affermazioni a Wimbledon di Pete.
Da quel momento in pochi continuarono a mettere in discussione il primato di Sampras. Ciò nonostante, l’estate sul duro nordamericano si dipanò piuttosto sotto tono: giunsero battute d’arresto con Steven a Montreal, Krajicek a Los Angeles, Edberg a Cincinnati e Rafter a Indianapolis, e Courier ne approfittò per tornare davanti nel ranking.
Gli US Open, però, segnarono il definitivo cambio della guardia. Jim fu fermato negli ottavi dal francese Cedric Pioline, che si spinse a sorpresa fino al match clou, dove Sampras, in grande spolvero lungo tutto il torneo, lo regolò senza difficoltà. Era il secondo titolo Slam di fila: uno schiaffo in faccia a chi sosteneva che, quando il gioco si faceva duro, lui si sciogliesse come neve al sole.
Pete concluse il 1993 con un totale di otto trofei in bacheca, aggiungendo a quelli già conquistati Lione (ancora su Pioline) e Anversa (su Gustafsson), senza riuscire però a fare suoi il Masters (sconfitto in finale da Michael Stich, dopo aver annichilito Andrei Medvedev il giorno prima) e la Grand Slam Cup (fermato in semi per 13-11 al quinto da Petr Korda). Poco male, in fondo: i primi passi verso la leggenda erano stati compiuti. Gli anni seguenti avrebbero dimostrato in maniera inequivocabile che non si trattava di un fuoco di paglia.
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