Roger e Rafa, lo Yin e lo Yang del tennis

Le lacrime dell’addio sono le più sincere e inconsolabili. Vanno giù da sole, e risalgono, e ricominciano. Sono anche le più contagiose. Sciolgono i pensieri e le parole, e lasciano spazio solo a occhi che luccicano, ovunque. Tra i compagni di cordata, tra gli avversari che per una volta avversari non sono, negli sguardi che si scambiano Borg e McEnroe.

Sui volti tesi di chi, tra il pubblico, cerca di resistere alle lacrime e cede di schianto al primo gesto amichevole di chi gli sta accanto. Nadal appare accorato, quasi dolente, la foto della serata lo trova accanto a Roger, seduto sulla panca del campo, con tutto il Team Europe che fa da contorno, e i due piangono, ma Rafa è quello che piange di più. C’è nell’addio di Roger anche una parte di Rafa che se ne va. Si chiude il portone di un’era lunga venticinque anni, che ha preso forma dal confronto dei loro caratteri opposti, lo Yin e lo Yang del tennis, le due polarità energetiche che nel congiungersi rendono il mondo comprensibile e a suo modo perfetto.

È una serata particolare, ma bella alla fine, di quelle che spingono ai buoni pensieri. L’applauso che giunge continuo, inesauribile, dalle tribune della O2 Arena non è rivolto solo al campione che molto ha vinto ed è entrato nella leggenda. È il tributo a un ex ragazzo di 41 anni che abbiamo visto crescere, che non ha mai smesso di migliorare, colpi, carattere, parole, gesti, look, pensieri, comportamenti. Mai presuntuoso, mai fuori posto, mai smodato. Lo abbiamo visto diventare sempre più bravo, così bravo da saziarci, da riempire le nostre attese delle sue magie, da farci sentire felici di poterlo rivedere una volta di più. È stato un’ispirazione, Roger Federer, un modo per farci sapere che si può crescere all’infinito, che non si è mai troppo vecchi per farlo. È stato un dispensatore di felicità. Come Maradona nel calcio. Come Ali nel pugilato. Come Bolt nella corsa. Hanno deliziato tutti, anche chi sperava in una vittoria altrui.

In mezzo al campo, illuminato da un faro che spinge la sua ombra verso il pubblico, invitato da Jim Courier a dar corso ai pensieri. «Provaci, non sarà così difficile». Federer dice subito che temeva questo momento, perché sapeva che si sarebbe emozionato e commosso. Si scusa delle lacrime, ma solo un po’, e con il tono di chi non può farci nulla. Parla delle ultime settimane prima dell’appuntamento con la pensione: «Pensavo di poter gestire questo addio, e credo di esserci riuscito. Piango, ma credetemi, sono lacrime di felicità. È stata più dura per alcuni membri del mio staff. Sto bene, ho superato le giornate dei pensieri mesti, ho rivissuto i momenti più belli della carriera, ho provato dolore nel considerare che ormai appartengono al passato, ma è così, è giusto così. Questa serata l’ho vissuta nella felicità».

Che cosa farà adesso? Padre, manager, uomo d’affari. E il tennis? «Giocherò ancora, magari in posti in cui non sono mai stato e ho voglia di conoscere. Andrò verso quei tifosi che non hanno potuto mai vedermi».

Nadal, infine. «Siamo sempre stati molto legati, ma negli ultimi dieci anni ci siamo avvicinati di più. Siamo due grandi appassionati del nostro sport, ci sentiamo connessi anche su molti altri temi, ne parliamo, basta alzare il telefono e chiamarci. Lo facciamo, non così spesso, ma lo facciamo. C’è un bel rapporto tra le nostre famiglie. Abbiamo apprezzato molto la nostra compagnia, ci siamo divertiti e abbiamo anche molto da ricordare e un milione di argomenti di cui parlare».

Le tribune sono stracolme, in tanti non hanno trovato posto. C’è un filo che unisce gli ultimi eventi che gli inglesi hanno vissuto. Hanno da poco preso congedo da una sovrana che hanno amato, capito, e che è sempre esistita nella loro vita. Oggi salutano un campione dello sport che hanno amato, capito, e che c’è sempre stato. Non ci sono paragoni da proporre, sarebbero fuori luogo. Solo accostamenti da fare, applausi che s’inseguono da un luogo all’altro della città, e sono simili, sebbene dedicati a personaggi così differenti. Tutti si sono sentiti più soli per la scomparsa della sovrana. Ora si avverte lo stesso magone nella serata dei saluti a Federer.

Lo prova anche Matteo Berrettini, che ha vinto ieri il suo match con Auger-Aliassime (un set pari, e un sontuoso super tie break nel terzo set), quello che avrebbe dovuto giocare Federer. Gli chiedono quali emozioni abbia provato. E lui racconta di non aver dormito, «troppe emozioni, tanta commozione, quando Roger mi ha abbracciato piangendo mi è sembrato di vivere un momento irreale. Come posso consolare uno come lui? Oggi voglio che sappia che ho scelto il tennis ammirando la bellezza del suo gioco, e che da piccolo tentai perfino di entrare senza biglietto nello stadio di Roma, pur di vederlo giocare». E Roger stavolta ride.

Ma quello che Matteo dice, fa parte delle buone ragioni che hanno spinto migliaia di persone a condividere con il Più Grande il suo ultimo match. Erano tutti lì, la sera prima, per rivedere almeno un colpo dei suoi. A chiedersi: sarà possibile? Non gioca da oltre un anno, Roger. Eppure si muove bene, serve bene, infila un passante, tocca una palla corta laterale che fa balzare in piedi lo stadio. Lui scherza con il suo team, sono lento in modo imbarazzante, dice. Ma il braccio disegna ancora magie. Alla fine, il doppio va agli americani, ma solo dopo un match point fallito da Roger e Rafa. Non conta. Contava solo rivederlo ancora una volta. E commuoversi con lui.

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