Il match che rese ricco il tennis

Il tennis scoprì di poter diventare ricco in un giorno qualunque, al termine di un torneo qualunque

Il tennis scoprì di poter diventare ricco in un giorno qualunque, al termine di un torneo qualunque. Era il 1972, anno di entusiasmi e di azzardi, in cui molto si edificava già sapendo che non tutto sarebbe rimasto. Terza stagione effettiva del tennis Open… L’Atp, al momento, era una dichiarazione d’intenti conservata nel cassetto di un notaio, seppure promettesse rapidi sviluppi (prese forma a settembre), il calendario – sotto il nome di Grand Prix – lo costruiva l’ex numero uno Jack Kramer con l’aiuto dei tornei che avevano intuito come quella fosse la strada più futuribile, e le organizzazioni professionistiche, soprattutto negli Stati Uniti, erano ancora attive e combattive. Fra queste la più importante era quella di Lamar Hunt, il World Championships Tennis.

Trentanove anni, grandi occhiali e capelli ormai in ritirata strategica dalla fronte, Lamar era un ricco petroliere texano con l’idea fissa che la vita meritava di essere vissuta il più lontano possibile da pozzi, trivelle e barili ricevuti in eredità dal padre. Era nato a Ed Dorado, Arkansas, la città fondata dagli spregiudicati cercatori d’oro di un secolo prima, e decise presto che se fosse riuscito a conservare in buona salute l’impero famigliare, avrebbe potuto cercare le sue pepite in territori lontani e ben più avventurosi. Amava lo sport, ne fece il campo privilegiato delle sue incursioni.

Viene ancora considerato marginale il nome di Lamar Hunt, nella storia moderna del tennis e forse sono stati proprio gli americani, per primi, a sottovalutarlo. Lo hanno riempito di premi, e ora che non c’è più (se n’è andato nel 2006, a metà dicembre) ne hanno fatto una presenza fissa in ogni possibile Hall of Fame, preferendolo però nei panni dell’artefice di sport di più larga fruizione nazionale. Fondatore dell’American Football League (AFL), su tutto. Poi dei Dallas Texans, diventati Kansas City Chief, squadra da tre vittorie nella Lega e due SuperBowl, una franchigia valutata da Forbes intorno ai 2,1 miliardi di dollari. Anche l’azione svolta a favore del soccer viene preferita agli anni dedicati a palle e racchette. Hunt partecipò alla nascita della North American Soccer League (Nasl), poi snellita nella Major League Soccer (Mls), e dette vita ai Kansas City Wizards, di cui fu presidente fino alla scomparsa, proprietario anche dei Columbus Crew e della F.C. Dallas.

Nella storia del petro-promoter il tennis venne considerato non più di un costoso balocco. Si fece addirittura l’ipotesi che Hunt si fosse impantanato in una battaglia di retroguardia, sostenendo oltre il dovuto il suo Wct, destinato a essere assorbito dal circuito e dalla nascente Atp. In realtà, una rilettura più moderna di quegli anni, veste Hunt di ben altri cenci. Quelli di un astuto impresario che conosceva perfettamente gli scenari in via di formazione. Se ne guardò bene dallo sfidare il sistema, finendo anzi con l’aderirvi per mantenere il controllo dei maggiori tornei americani e attraverso di essi lanciare messaggi chiari sul futuro. Sosteneva che il tennis dovesse rapidamente incrociare le simpatie degli sponsor, vestire sempre i suoi panni migliori, dare spettacolo a tutti i costi, e pagare di più i suoi protagonisti in modo che interpretassero al meglio la loro missione. Fu una sua creazione la finale del Wct a Dallas. Spettacolo puro… Nacque nel 1971 e nei primi due anni la finale si affidò al tennis di Kenneth Rosewall e Rodney Laver. I migliori.

Fu il match del 14 maggio 1972 a dare a Hunt le risposte che cercava. L’incontro venne ricordato per anni (non meno di 30) come il migliore mai giocato e finì per avere sulla storia professionistica del nostro sport un’influenza decisiva. Ken e Rod si dettero battaglia per 3 ore e 34 minuti sul tappeto sintetico del Moody Coliseum della Southern Methodist University di Dallas. «Se vi fu una partita che aiutò a costruire il tennis negli Stati Uniti, è stata sicuramente quella», ha scritto Rod Laver, anni dopo, nelle sue memorie. Motivo in più per dolersi della sconfitta, che giunse puntuale come sempre gli capitò nei Masters. Rosewall aveva vinto anche la finale dell’anno prima, ma non era di certo il favorito, eppure riuscì a ribattere colpo su colpo il gioco a tutto campo di Laver. Finì 46 60 63 67(3) e 76(5) per il Piccolo Grande Uomo.

In nome dello spettacolo, Hunt fece del suo Masters un evento di tutto il Texas. I migliori otto cominciarono a sfidarsi a Houston, quarti e semifinali. Vi giunsero Rod Laver, John Newcombe, Cliff Drysdale, Marty Riessen, Tom Okker, Arthur Ashe, Bob Lutz e Ken Rosewall. In semifinale approdarono Laver (che affossò Lutz), Ashe, Riessen e Rosewall (che liquidò Newcombe), e a quel punto la strada era segnata. Ashe non aveva mai sconfitto Laver, e si accontentò di strappargli un set. Rosewall spianò senza riguardi Riessen. La mattina successiva fu organizzato il trasferimento aereo per Dallas. Il giorno della finale, sugli spalti del Coliseum, tra gli invitati speciali c’era anche Neil Armstrong, l’uomo che tre anni prima (il 21 luglio 1969) aveva posato per primo il piede sulla luna ma non era ancora riuscito nell’impresa di porre fine al tour dei festeggiamenti.

Laver partì forte, la risalita di Ken Rosewall fu imperiosa. Il secondo set si chiuse 6-0 per Kenneth che in breve si ritrovò avanti 46 60 63 e 3-1 nel quarto. Match finito, sembrava. Ma Laver aveva ancora dei colpi da mettere in campo. Riagganciò e portò il quarto al tie break, per vincerlo a mano basse. Il quinto set fu emozionante. Sul 5-4 Rosewall ebbe un match point. Non bastò. Si andò di nuovo al tie break e Laver andò a servire due volte sul 5-4, ma Rosewall seppe disinnescarlo con due risposte passanti micidiali, per poi vincere al dodicesimo punto. «Pensavo di avere la vittoria tra le mani», spiegò Laver, «ma Ken ha lasciato partire le due più belle risposte al mio servizio che gli abbia mai visto fare».

Non fu solo il bel gioco a rendere speciale la finale. E nemmeno la notorietà dei due protagonisti, giunti alla 137ª sfida. L’evento si arricchì d’ingredienti sconosciuti al tennis di quegli anni. Numeri importanti per biglietti venduti, mai visti addirittura per ascolti televisivi. La sfida raccolse intorno a sé 8500 spettatori. Non era un record, l’impianto non era nemmeno fra i più grandi, ma lo stadio era sold out, e il tennis di quei tempi non era sport da tutto esaurito. «Dallas, semplicemente, fece sapere a molte aziende americane che del tennis ormai ci si poteva fidare», fu la spiegazione offerta dallo stesso Hunt. Si proponeva come investimento a basso costo rispetto a quelli richiesti da football e baseball, ma in grado di ripagare in modo adeguato gli sponsor.

Tanto più attraverso le riprese televisive che portarono al tennis la cifra mai udita di 21 milioni e 300 mila spettatori. Era la prima volta nella storia degli Stati Uniti che una stazione televisiva nazionale, la NBC, trasmetteva una partita di tennis in diretta sulle sue 170 stazioni in tutto il Paese. Erano numeri in grado di cambiare l’intero business tennistico, dagli accordi di sponsorizzazione ai premi in denaro per i tennisti, ai futuri contratti televisivi. Non solo, la diretta funzionò talmente bene (furono Bud Collins e Jim Simpson i commentatori) da suggerire una storica decisione ai padroni della rete, che coinvolse l’intoccabile “Sunday Six News”, il notiziario in diretta delle ore 18 fra i più attesi dal pubblico della Nbc, costretto a farsi da parte per mettersi in coda al match, «qualunque fosse l’orario della sua conclusione».

L’evento, infine, fu anche una risposta al Grand Prix di Jack Kramer, che già riuniva i grandi tornei europei e gli Slam, proponendo però dei montepremi di infimo livello. Il Roland Garros metteva in palio 30 mila dollari per il vincitore, Rosewall ripartì da Dallas con un assegno da 50 mila, un anello d’oro, una coppa gigante. E una nuova fiammante Lincoln Continental.

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