Ace Cream/ L’Italia che non c’era

È la ribellione dei ragazzi che non c’erano, la rivolta dei “senza tennis” di dodici mesi fa, la sollevazione delle nuove leve di cui a lungo si è dubitato. L’Italia che vince al Roland Garros nessuno la conosce, nemmeno gli avversari. Quei ragazzi, semplicemente, non c’erano. Non esistevano. Ma ora sono ai piani alti, e sembra che ci siano sempre stati. Appaiono sicuri dei loro mezzi, certi che vi siano ancora pagine da scrivere, e sono pronti a farlo, rivelando in prima persona che cosa gli sia scattato dentro, e quando, se da un giorno all’altro oppure un po’ alla volta, accumulando esperienze e acido lattico. In due al terzo turno, giunti fin lì senza spintarelle, senza facili promozioni, senza raccomandazioni. Un approdo insperato, che vale da solo un torneo. La Giovane Italia ha messo il cappello sul torneo… In fondo, non ci si chiama Berrettini per caso.

Matteo è uno. L’altro è il Ceck, Marco Cecchinato. Navigavano entrambi controvento, ma hanno azzeccato i bordi vincenti, bolinando stretti sul filo dei refoli che ancora una volta hanno smentito i meteorologi, tenendo a distanza le nubi più nere. Cecchinato giocava contro Trungelliti, e fra i due sembrava fosse l’argentino quello con il vento in poppa. Due volte fortunato perdente, meglio perderli che trovarli tipi del genere. Aveva perso al terzo turno delle qualificazioni da un polacco con un cognome da censura, Hurkacz, e se n’era andato in cerca di qualche challenger. Ma il giorno dopo nessuno si è presentato a firmare la lista dei sostituti degli eventuali infortunati, e allora gli organizzatori hanno cominciato a telefonare qui e là. Lui l’hanno trovato a Barcellona. «Che fai? Vieni». «Vengo». Undici ore di macchina e subito in campo contro Tomic, battuto in quattro set. Poi, Cecchinato…

Non c’è stata partita. Neanche nel secondo set, chiuso al tie break: sette punti il nostro, uno appena l’argentino. Ma non si è trattato di una dimostrazione di forza, non è nello stile del Ceck. Piuttosto, una lezione di sapienza tennistica. «Mai giocato così bene come nel primo set», dice Marco. Sembrava quasi che sapesse in anticipo che cosa Trungelliti stesse pensando, e dove volesse andare a parare. E gli ha chiuso a doppia mandata tutte le porte. Ora c’è Carreno Busta, numero dieci del seeding. Non è il bel tennista scattante e svelto dell’anno scorso, ma uno ormai da tempo a contatto con i più forti. Forse, il bel percorso di Marco Cecchinato è giunto al termine, si vedrà. Ma in questi pochi giorni parigini, a contatto con la realtà di uno Slam che non aveva mai affrontato da protagonista, il nostro ha ottenuto di potersela giocare con chiunque, anche contro avversari che solo poche settimane fa sembravano inaccessibili.

Gli stessi pensieri è probabile che stiano sfiorando Matteo Berrettini, che pure il battesimo di fuoco, contro un avversario strampalato finché si vuole, ma di nobile stirpe, l’ha già avuto, e l’ha superato con una forza d’animo che non conoscevamo e che può fornirgli un salvacondotto per le zone alte del nostro sport. «Non è mai facile affrontare uno come Ernests Gulbis, ha troppi alti e bassi, è dura stargli dietro», dice Matteo. Tipo matto il lettone, lo sapete, a volte disinteressato al tennis, forse perché miliardario di famiglia (il padre è il massimo azionista del gasdotto che viene dalla Siberia) o forse perché troppo condizionato dal suo talento. Uno che tira colpi che sembrano schioppi di spingarda: con il dritto, con il servizio… Uno che mette in soggezione quando gioca bene. E quando non è in gran giornata, ti aspetti da un momento all’altro che ti sbatta in un angolo e prenda in mano il match.

Non con Berrettini, però. Ai colpi di spingarda Matteo ha risposto con bordate di obice, ed è stato bravo a prendere sempre il tempo al lettone testa calda. L’ha fatto Matteo, il match, se l’è costruito alternando colpi di maglio a smorzate improvvise, non sempre perfette, ma in grado di disturbare Gulbis, e di metterlo in tensione. «Il momento più duro è stato alla fine del terzo set, ero avanti, mi ha breakkato. Lì mi sono detto: ora tocca a me, faccio il matto ma questo set lo porto a casa». Chapeau, anche se può sembrare una battuta…

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