Zverev, tutta colpa del dubbio

Che cosa è successo a Sacha Zverev sul quattro a zero del tie break del primo set? E all'inizio del terzo set?

Che cosa è successo a Sacha Zverev sul quattro a zero del tie break del primo set? E all’inizio del terzo set?
Paolo Bertolucci, cui sicuramente la prova del campo e delle relative emozioni non mancano, ha giustamente parlato, a fine partita, della mancanza di esperienza a gestire tali in momenti in tornei così importanti, in particolare al cospetto di Roger Federer, che di primavere rispetto al tedesco ne conta ben sedici in più e per cui tutto questo costituisce la normalità.
Questo è sicuramente vero, ed è valorizzato ancor di più dal fatto che, sebbene in maniera sottile, il tedesco era parso avere qualche chance in più di conquistare il primo parziale, avendo tenuto la propria battuta con maggiore facilità dello svizzero ed essendo apparso molto fresco atleticamente su tutte le variazioni continue proposte dal campione di Basilea. L’inizio del tie-break aveva confermato la sensazione e ad occhi poco esperti pareva davvero difficile una rimonta di Federer. Alla fine del secondo set, l’idea era la medesima, avvalorata dal fatto che Zverev si era aggiudicato il secondo parziale in rimonta e Federer era insolitamente molto nervoso, avendo persino avuto leggeri battibecchi con il giudice di sedia.  Ma abbiamo detto ad occhi poco esperti. Perché?
Perché le affermazioni del buon Bertolucci sottintendono un ulteriore elemento, il più grande nemico del giocatore di tennis, e in generale di chi affronta competizioni sportive a livello professionistico, ben conosciuto per chi invece di esperienza ne ha. L’incapacità di gestione del momento sottolineata dal cronista italiano spesso è causata da colui che in molti altri campi costituisce il quid del progresso: il dubbio.
Avete capito bene, il dubbio, e non è difficile immaginare quale sia stato quello che si è palesato nella testa del giovane talento tedesco: “Quindi io, forse, sono in grado di battere Federer?”
Partita finita, game over! Per una strana alchimia della nostra ragione, infatti, nel momento in cui ci si pone tale domanda su un campo da tennis, spesso si finisce per perdere, in particolare quando il tuo piano di gioco è quasi perfetto e l’esecuzione anche. Quel piccolo tarlo che si insinua nelle tue certezze e le pone in discussione incrinandone la superficie alla stregua di un bicchiere di cristallo causa un crollo del gioco quasi sempre letale.
Due ex vincitori di slam molto giovani, Boris Becker e Marat Safin, hanno sottolineato molto spesso, in passato, quanto le loro vittorie ottenute in tenera età, tennisticamente parlando, fossero figlie di quell’incoscienza giovanile che mai ti fa dubitare delle tue scelte e della tua forza e come con il passare degli anni e la maggiore razionalità il compito fosse più arduo. Lo stesso è stato dichiarato più volte anche da Andy Murray e Novak Djokovic.
Sacha Zverev probabilmente è giunto a queste Finals grazie ad una maturità, in altri aspetti, maggiore di molti altri suoi coetanei, ma è probabile che ieri sera sia caduto vittima proprio di questo elemento.
Il dubbio, cardine del principio di ogni ricerca filosofica o scientifica, colui che, come ben descritto dallo spettacolo teatrale di Marco Paolini, spinse Galileo a mettere in crisi la teoria del pianeta piatto, sul campo da tennis è meglio che non compaia mai. Anche Zverev imparerà a non dir dentro a se stesso “Eppur si muove” nel momento sbagliato.

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