Roger Federer e i giovani d’oggi

Abbiamo visto e conserviamone memoria, perché non durerà ancora molto

Noi abbiamo avuto la fortuna di assistere ai prodigi ma possiamo comprenderne appieno il valore? Anche se è sempre difficile per i contemporanei valutare il peso storico di ciò che scorre davanti ai loro occhi, questi centonovantasette giorni dell’Anno Domini 2017 hanno tutta l’aria di essere la classica eccezione che conferma la regola. Ventisei partite giocate e ventisei vittorie pesanti fra Australian Open, Indian Wells, Miami e Wimbledon, la consueta corona di Halle e il tocco di classe di due sconfitte contro Donskoy e l’amico Haas – che potranno gloriarsene una vita intera – rendono solo vagamente l’idea.

Il tennis non ha più parole, “Nè sa quando una simile / Orma di piè mortale / La sua cruenta polvere / A calpestar verrà”.
Scusate la pesante retorica manzoniana, ma se non ora, quando?

David Foster Wallace – we miss you so much! – ha scritto che Federer è l’unico giocatore riconoscibile a occhi chiusi solo dal rumore che la pallina produce sulle corde della sua racchetta. Ed è pura verità.
Perché lui è diverso, la differenza fra il suo gioco e quello di tutti gli altri è la stessa che intercorre fra la Casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright e una signorile palazzina in clinker. Entrambe sono abitazioni, ma vuoi mettere?

Il tutto alla soglia dei 36 anni e con una muta di pretendenti alle calcagna che se possedessero il giratempo di Albus Silente o la De Lorean di Marty McFly non esiterebbero un istante a spostare avanti, o indietro, la loro data di nascita. Tutto pur di non vederselo più intorno in spogliatoio.
E non servirebbe a nulla perché in ultima analisi quel che conta veramente non è quanto Roger ha fatto, che in linea teorica potrà anche essere migliorato, è il come lo ha fatto che resterà inarrivabile al pari delle sue smorzate.

Deve essere durissima scoprire solo alla fine di non aver mai avuto la minima possibilità di superare il maestro ma speriamo per la loro sanità mentale che Rafa, Nole e Andy abbiano finalmente capito. Rimangono i Fab Four però John Lennon era un’altra cosa.

Si tratta di grandissimi campioni, leali e sportivi in campo e certamente degni degli allori che hanno conquistato. Hanno avuto in dono il talento ma non la capacità di sognare.
Sono figli del loro tempo, di uno stile di gioco che vince annoiando mortalmente.
E soprattutto rende tutti uguali, energumeni di due metri dal braccio pari ad una coscia che vivono fra la riga di fondo e i teloni sparando a più non posso con la loro Grande Berta fino ad esaurimento munizioni.
Ma come si fa ad emozionarsi per un dritto sparato a 150 kmh o una prima di servizio che viaggia poco sotto la velocità del suono? Quella è meraviglia, non emozione.

Altra cosa è scorgere la poesia di un semplice back corto, di un anticipo soprannaturale o una finta che manda l’avversario prima a farfalle e poi sul lettino dello psicanalista.
Per vedere questo bisogna amare il gioco più del giocatore, il gesto più del suo effetto, il merito e il valore più della vittoria. Impossibile oggi.

Pochi giorni fa ho sentito un istruttore di tennis – ben qualificato stando ai diplomi appesi al muro del circolo – dire che il tennis è uno sport facile.
“Basta colpire due incrociati e poi andare sul lungolinea a tutto braccio” sono state le sue parole,  i ragazzetti intorno a lui annuivano convinti.

Che tristezza.

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