Roger Federer, il campione che si è lasciato amare dai suoi tifosi

Storyteller - Roger Federer come Muhammad Alì: 2 campioni che grazie al loro carisma sanno trascinare al di là delle vittorie.

Lasciarsi amare. È quello che gli appassionati chiedono alle leggende dello sport, che si lascino amare. Per questo milioni di persone sono disposti ad aspettarli per mesi o per anni, per questo riescono a sopportare le parole di chi non è divorato dalla passione e si spreca in precoci consuntivi finali.

Il coccodrillo, in gergo giornalistico, è l’elogio funebre dell’eroe morto. Sia esso poeta, inventore, scienziato o filosofo. Nel nostro caso si è aperto un altro campo delle celebrazioni. Lo sport divora i suoi eroi, il mondo corre e tutti noi siamo vittime della fretta. Così può accadere che qualcuno beatifichi con un coccodrillo il fenomeno ancora in corsa. E scriva una pagina conclusiva, le ultime parole con cui si dovrebbe chiudere la storia. Bella, ma pur sempre finita. Accade spesso, dimenticandosi che non si diventa leggenda per caso.

Roger Federer si è guadagnato l’ingresso nel club con exploit eccezionali, ultimo quello di collezionare 18 Slam. Ma anche per altri requisiti. Non bastano le vittorie sul campo per farsi amare dalle folle. Bisogna avere qualcosa nell’animo oltre che nel gioco per conquistare il mondo.

Scomodo la Treccani.

Carisma s. m. [dal lat. eccles. charisma, gr., der. di «grazia»] –

1. Nel linguaggio religioso, la grazia come dono elargito da Dio.

2. Nelle scienze sociali il complesso delle facoltà e dei poteri straordinarî che una persona possiede e che le vengono riconosciuti all’interno di un gruppo religioso, culturale o economico, o nella società, consentendole l’assunzione di un ruolo direttivo.

3. estens. Capacità di esercitare, grazie a doti intellettuali o fascino personale, un forte ascendente sugli altri e di assumere la funzione di guida, di capo.

Ecco, il carisma Federer ce l’ha. E ha anche la magia che solo nei campioni baciati dal sole riesce a creare quel misto di antico e moderno che sa rubarti il cuore. Così mi scopro a immaginare cosa sarebbe stato capace di fare ieri, quando si giocava con le racchette di legno. E mi convinco che quello sarebbe stato lo strumento ideale per l’artista raffinato quale è. Poi ci rifletto su, mi ricordo il modo in cui colpisce la palla, i suoi cambi di ritmo, il rovescio che disegna magiche traiettorie, le soluzioni tecniche e tattiche che è in grado di usare, la capacità di giocare con la palla sempre davanti al corpo e non dietro come accade oggi nella maggior parte dei casi e capisco come la sua sia una forza che esprime modernità, mi sembra addirittura rivoluzionario nella semplicità con cui compie i gesti più difficili.

Anche chi non è un appassionato di tennis, quando c’è lui si siede davanti alla televisione. Questo me lo fa subito sembrare incredibilmente vicino a un altro fuoriclasse assoluto: Muhammad Ali. Anche perché come Ali era in grado di mascherare la violenza dei pugni regalando loro la purezza del gesto tecnico, così Federer fa nel tennis: colpisce la palla con violenza ma senza trasformarsi in un picchiatore, lo fa senza mai involgarire la giocata che appare sempre e comunque elegante.

E come per Ali, anche per Federer il popolo degli adoranti ha saputo aspettare. Eravamo tutti lì, orfani da troppo tempo del suo talento. Ma solo i miscredenti osavano pensare che non l’avremmo più rivisto con un trofeo dello Slam in mano. Ne sentivamo il bisogno, quasi fossimo in crisi di astinenza. Ci mancava, al punto che lo cercavamo in un gesto. Bastava un rovescio tirato come solo lui sa farlo per farci sperare. Serviva per non affievolire il ricordo, per incrementare la speranza. Perché lui è il più grande, non so se solo di oggi o di sempre. E neppure mi interessa. È sicuramente il più grande per chi allo sport chiede soprattutto emozioni. È capace di regalarcele come pochi. Quello che abbiamo visto nel quinto set della finale contro Rafa Nadal è roba per palati fini, per principianti del tifo, per super esperti, per giovani e vecchi, uomini e donne, nonne e nipoti. Insomma, è un’arte che tutti possiamo capire. È la bellezza che rende universale l’impatto di un campione sulla passione sportiva di noi comuni mortali. E davanti aveva un grande Nadal, mica noccioline.

Mi sono emozionato, addirittura commosso, quando l’ho visto saltare come un bambino dopo che l’occhio di falco aveva sancito quello che tutti avevamo già visto a occhio nudo. La pallina era dentro, aveva vinto. In quello stesso istante ho avuto un flash, l’immagine del destro di Ali che chiude la sfida contro Foreman a Kinshasa, la faccia del campione bella come quella di un dio greco mentre aspetta che Big George finisca il suo balletto disteso sul tappeto, gli occhi fulminanti che attendono qualche interminabile secondo prima di avere la conferma definitiva di averlo messo knock out e di essere così tornato sul tetto del mondo.

Roger ha vinto il suo diciottesimo Slam cinque anni dopo aver conquistato il numero 17, ha vinto dopo sei mesi di inattività. Pochissimi, quasi nessuno, pensavano potesse farlo. Come nessuno o pochissimi erano pronti a scommettere su Ali. In molti pregavano per lui, chiedevano al Signore che lo proteggesse. Non per portarlo sino alla vittoria, ma per evitare che si facesse del male. A Roger Federer non poteva certo accadere di farsi male fisicamente, ma in tanti temevano che questi Australian Open avrebbero potuto rappresentare l’ennesimo passo all’indietro, avevano paura che lo Slam di Melbourne avrebbe scritto la storia di una pietra che rotola dalla parte sbagliata.

In quanti avevano già pronto un corsivo sul “campione con un grande futuro alle spalle” Adesso leggo e sento il canto di molti profeti del giorno dopo. No, non ho paura ad ammettere le mie colpe: anche se lo speravo, non ero mai arrivato a sognare che potesse finire così. Ora però mi chiedo se il giorno in cui lascerà non sarà ancora più brutto per chiunque ami questo sport. Perché quando ha detto: «Ci vedremo l’anno prossimo e se non sarà così, grazie a tutti», siamo stati immediatamente sopraffatti dalla nostalgia. In pochi secondi ci siamo scoperti a rimpiangere quello che non era ancora accaduto, siamo stati capaci di soffrire in uno dei momenti più belli della carriera di un campione che amiamo. Di uno che ci ha messo del tempo a farsi amare. A volte sembrava addirittura distante, poco propenso a cedere alla passione, lontano dal rapporto caldo che uno scambio di emozioni è capace di regalare. L’unico scambio che offriva agli appassionati era quello sul campo da tennis. Bellissimo, per carità. Ma decisamente troppo poco per portarlo nel ristretto club delle leggende.

Con gli anni, la nascita dei gemelli, la consapevolezza di come la passerella finale fosse sempre più vicina, si è ammorbidito. Ha abbandonato qualsiasi difesa, ha goduto di più per una vittoria, ha pianto, ha esultato, ha sorriso. È entrato nelle nostre case portandosi dietro non solo la bellezza di un rovescio o la devastante pulizia di un dritto a tutto braccio, ma anche la capacità di conquistare il nostro cuore. Dopo averci regalato immagini di puro talento, ha capito che poteva lasciarsi guardare senza quella maschera che proteggeva i sentimenti. E adesso, in una magica serata dell’estate australiana, ha finalmente compiuto la definitiva metamorfosi. Si è lasciato amare. Anche per questo gliene siamo grati.

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