Eroi del Kooyong (che fu): OK Tennis intervista Brian Teacher

Finiti gli Australian Open 2017, ripercorriamo le tappe salienti delle carriere di alcuni protagonisti del ‘vecchio’ Slam oceanico. Cominciamo con un'intervista a tutto campo a Brian Teacher, vincitore dell'edizione 1980.

Da Pasadena, California, abbiamo sentito Brian Teacher, campione dell’edizione 1980 dell’Open d’Australia. Non è facile intraprendere una carriera da professionista nel mondo dello sport quando si è afflitti da un’importante patologia degenerativa. Meno che meno, arrivare tra i primi 7 giocatori del mondo (best ranking raggiunto nell’ottobre 1981) in un’era dominata da tre autentici ‘mostri sacri’ della racchetta quali Bjorn Borg, John McEnroe e Jimmy Connors.
Brian Teacher ha avuto coraggio nell’intraprendere una carriera come tennista professionista su cui il giovane Brian, 4 volte All-American presso la celebre University Of California, Los Angeles (UCLA) tra il 1972 e il 1976, nutriva, almeno in origine, qualche dubbio: “pensavo di aver dato e vinto abbastanza a livello universitario, e a quell’epoca non mi mancava molto per concludere gli studi. Ho abbandonato l’università per qualche anno, per poi farvi ritorno una volta chiusasi la mia carriera da professionista nel circuito ATP. In mezzo, ho vinto uno Slam, sono stato tra i primi dieci del mondo in singolare, e tra i primi venticinque del mondo in doppio. Non male, direi!”.
Giocatore esponente della più classico serve and volley, molto elegante nel gioco anche se generalmente considerato più “leggero” di altri suoi contemporanei, quasi da essere considerato una sorta di precursore di un altro notevole talento del tennis made in U.S.A., Tim Mayotte, Brian Teacher aveva senz’altro in un ottimo servizio, scagliato dall’alto dei suoi 191 cm. di altezza, il punto di forza principale del suo gioco d’attacco, molto efficace su superfici veloci (erba, ma anche cemento e soprattutto sintetico indoor).
Molto solido il diritto, di classica scuola americana e ben giocato sia piatto che in top-spin, un po’ meno (comunque discreto) il rovescio, mentre decisamente buona e soprattutto, eseguita con una notevole coordinazione nei movimenti nonostante l’imponente mole, la volée sia sul lato del dritto, che su quello del rovescio.

Brian, 36 anni dalla tua vittoria all’Australian Open che sono in realtà 37 viste le sorprendenti, quasi inspiegabili date in cui si giocava al Kooyong in quegli anni e costringeva tutti voi professionisti a disputare incontri praticamente nei giorni immediatamente precedenti o successivi al Natale. A che velocità sono trascorsi, e che sensazioni hai relativamente al tuo cammino verso la conquista del tuo unico Slam?
Vero! 36, diciamo “sporgentisi” nei 37, visto che siamo già a gennaio del 2017, anche se devo dire che far disputare il torneo a alla fine di novembre 1980 anziché a fine dicembre, fu una scelta tutto sommato “inusuale”, data la consuetudine dell’epoca dettata dalla Federazione Tennis Australiana di far cominciare il torneo praticamente durante le festività natalizie… se mi guardo indietro, devo dire che di tempo ne è passato davvero… tanta acqua sotto i ponti, insomma!

Uno Slam che peraltro tu non avresti dovuto nemmeno disputare, visto che all’epoca stavi divorziando da tua moglie Kathy May (ex-top ten WTA e madre di Taylor Fritz), e tentare di risolvere i problemi nella tua vita sentimentale e familiare era né più né meno che la tua priorità assoluta…
In preparazione all’Australian Open, disputo l’ATP di Sydney e arrivo in finale. Perdo contro Fritz Buehning dopo aver avuto un match point. Non sono per niente triste o scoraggiato nonostante sia la terza finale consecutiva che disputo e in cui vengo sconfitto (nell’ordine, Taipei, Bangkok, e appunto, Sydney, precedute da altre due nel corso del 1980, ovvero Los Angeles e Hong Kong, in quest’ultima sconfitto da un giovane prodigio di nome Ivan Lendl-nda), so che sto chiaramente giocando il miglior tennis della mia carriera fino a quel momento. La testa c’era, i colpi c’erano, mancava forse solo un pizzico di fortuna in più, che non guasta mai. Comunque, finisco di giocare la finale di Sydney, esco dagli spogliatoi, la prima cosa a cui penso è chiamare a casa, per sapere come sta mia moglie e se va tutto bene, perché non la sento da un paio di giorni. “Pronto, ciao Kathy, sono io, Brian, ho appena perso contro Fritz Buehning dopo aver avuto un match point” e dall’altra parte del telefono, dopo un silenzio durato un paio di secondi, mia moglie dice qualcosa che mi lascia a dir poco a bocca aperta, peraltro senza neanche il minimo, credo dovuto, preambolo: “Voglio divorziare” .
“Che cosa?!” le rispondo. Quando la settimana prima avevamo parlato di cambiare casa e pensare ad avere dei figli…!!

Una reazione inaspettata quella di Kathy, e una situazione veramente difficile da gestire per chiunque…
Assolutamente! A rimettere le cose al loro posto per quanto possa sembrare strano o addirittura assurdo, ci pensa mio suocero. Dopo aver pensato che avrei fatto meglio a tornare a casa per cercare di capire che cosa stesse succedendo e se mia moglie avesse nel frattempo trovato un amante, con le valigie già fatte, e dopo aver comunicato a Colin Stubbs, direttore del torneo, che non avrei disputato gli Australian Open adducendo un alibi fasullo, cioè che avevo la schiena a pezzi per le troppe partite giocate, manca circa mezz’ora all’arrivo del taxi che mi deve portare in aeroporto. Sono ancora nella mia stanza d’albergo, migliaia di pensieri, voci, immagini che scorrono in un autentico “brain storm” dentro di me. Squilla il telefono. È David May , il padre di Kathy. Mi esorta a non tornare a casa, mi dice che l’atmosfera non è davvero delle migliori, che farei meglio “a prendermi una pausa dal Tour e andare a prendermi una vacanza, perché no in un posto esotico come le Hawaii (sic)…” Non ci penso nemmeno, mia moglie vuole il divorzio e io vado “a fare un giro” in perfetta solitudine alle Hawaii…?! Neanche per idea!

È allora che ritorni sui tuoi passi, e prendi la decisione che ti porta a vincere il tuo unico Slam in carriera… è esatto?
Richiamo Colin Stubbs e gli dico che ci ho ripensato, che voglio giocare. Colin è categorico, come posso dargli torto, del resto… mi sta facendo un favore incredibile, o meglio, sta provando a farmelo. E per un buon 90%, l’esito non si preannuncia come positivo.
Una cosa di questo genere, al giorno d’oggi, molto probabilmente verrebbe sanzionata e ne risulterebbe un caso mediatico senza precedenti, con guai sia per il giocatore richiedente il “favore” di cui sopra, che per l’organizzatore, con strascichi legali e quant’altro! Per fortuna stiamo parlando di un’epoca totalmente diversa rispetto a quella odierna…
Colin mi risponde “Brian, sai che mi stai chiedendo qualcosa che di per sé è contrario al regolamento, il che mi mette in una posizione estremamente delicata. Non ti prometto nulla, ma se qualcuno dovesse cancellarsi dal tabellone del torneo, potrei reinserirti nella lista dei partecipanti”.

Vieni riammesso, e vinci…
Sì. Recupero la mia posizione originaria tra le teste di serie del torneo, al numero 8. Nei primi match mi sento letteralmente un pesce fuor d’acqua, la testa è più a casa mia in California e a quello che mi aspetta una volta che vi avrò fatto ritorno, più che sui campi del Kooyong Stadium. Ribadisco tuttavia come io continui, a tutt’oggi, a considerare quel periodo come il più rappresentativo delle mie effettive capacità come tennista. Ma se da un lato gioco un tennis davvero ottimo per 3, anche 4 giochi, o addirittura un intero set, nei successivi 3-4 games la testa, e di conseguenza, la concentrazione, mi abbandonano. E gioco come peggio non potrei. E’ una situazione che perdura per tutti gli incontri dei primi turni, il che non mi lascia ben sperare per il prosieguo del torneo. Ma almeno, penso, sono lì. Vado avanti, ci provo.

Fu Tim Mayotte a metterti in crisi già al primo turno, poi ci fu Ulrich Marten, modesto tennista tedesco, entrò al massimo nei primi 170 del ranking ATP…
Tim era giovane e già in un certo senso, “affamato”. S’intravedeva già all’epoca, a 20 anni, che aveva delle qualità per emergere, infatti due anni dopo si spinse fino alla semifinale di Wimbledon. Con Ulrich Marten, beh, anche lì, vinsi in tre set, ma il secondo e il terzo, che conquistai solo al tie-break, denunciavano a chiare lettere che stavo cercando di trovare la miglior condizione –soprattutto a livello psicologico- nel bel mezzo dell’inferno che stavo passando a livello personale.

Quando riuscisti finalmente a “ingranare”?
Con John Austin (fratello della più famosa e bi-campionessa Slam, Tracy) al terzo turno. Fu allora che capii che se avessi preso un distacco repentino e totale dalla negatività che s’era in un qualche modo impadronita di me, concentrandomi esclusivamente sugli sforzi che dovevo compiere quella settimana, avrei potuto fare anche meglio di quanto avevo fatto negli altri tornei disputati nel corso dell’anno.
Vinsi agevolmente in tre rapidi set, poi arrivarono, nell’ordine, Paul McNamee e Peter McNamara. Insieme, avrebbero costituito una delle più belle e vincenti coppie di doppio degli anni ’80. Temevo Paul per la sua combattività in campo e per il suo particolare rovescio a due mani, a detta di molti il colpo più “costruito” del suo repertorio, e forse per questo, stranamente, anche il più temibile. E anche Peter era un bravo giocatore, arrivò anche lui tra i primi 7 del mondo nei primi anni ’80.

Cosa sapevi di Kim Warwick prima di quella finale?
Parecchio, perché l’avevo conosciuto quello stesso anno (curiosamente Teacher avrebbe affrontato Warwick in singolare due volte nel 1980 vincendo entrambi gli incontri, ma i due non si sarebbero mai più sfidati in seguito a livello di singolare-nda) giocando contro di lui nei quarti di finale a Sydney proprio pochi giorni prima dell’Australian Open. Ci eravamo anche allenati insieme.

Si dice fosse un giocatore “talentuoso ma poco performante”.
Numero 15 in singolare, numero 10 in doppio, specialità in cui secondo me eccelleva, 35 vittorie contro dei top 10 tra cui Kodeš, Ramirez, Ashe, e Gerulaitis… servizio potente e penetrante, dritto e rovescio tirati come se non ci fosse un domani (ne sa qualcosa Adriano Panatta, che dovette annullargli 11 match point al Foro Italico in un incontro di primo turno, in quello che fu il suo “annus mirabilis”, il 1976!), voleè e riflessi da doppista… beh, vedi tu… magari a tratti peccava un po’ di precisione (Gianni Clerici docet!-nda), ma era un giocatore che non andava certo in campo per perdere, Kim. Poi in semifinale in quell’Australian Open, aveva appena battuto Guillermo Vilas in 5 combattutissimi set. Chi l’ha vista, mi ha detto che è stata una partita epica di cui nessuno si ricorda più! Guillermo è uno dei grandissimi degli anni ’70 e ’80, un giocatore difficilissimo da battere e dotato di una resistenza fisica pazzesca, ma Kim quel giorno ha dato veramente tutto quello che aveva, s’è spinto oltre il limite portando a casa un match in cui partiva con il pronostico nettamente contro di lui. La partita contro Vilas doveva averlo tuttavia sfinito dal punto di vista fisico, è forse anche per quello che l’ho battuto in finale in tre set…

A riprova del momento difficile che stavi passando in quel periodo, nella tua scheda di presentazione che compare sullo schermo prima che inizi la finale dell’Australian Open, si legge che il tuo peso era di soli 67 kg.
Oh goodness! Aspetta, voglio fare un controllo con uno strumento di conversione di unità di misura su internet… no, infatti, qualcuno s’è sbagliato e ha riportato dei dati errati! Ne pesavo 79, non 67… è vero che si trattava di un periodo difficile e stressante, però tu hai mai sentito di qualcuno che riesce a giocare e vincere una finale disteso in un letto d’ospedale…?

Cosa ci puoi dire dei campi del Kooyong? Nonostante le evidenti difficoltà finanziarie degli organizzatori del torneo, e visto che la manutenzione di un campo in erba è solitamente molto costosa, secondo te erano ben conservati? Ti piaceva giocare su quel tipo di erba?
I campi erano dal mio punto di vista, assolutamente ben conservati. Tieni conto che l’erba di Melbourne era distante anni luce da quella di Wimbledon. A Church Road piove molto, moltissimo durante l’anno, e i campi ne risentono irrimediabilmente. La palla viaggia sempre veloce, certo, ma al Kooyong il suolo sottostante ai campi in erba era duro, anzi durissimo, perché arso dal sole dell’estate nell’emisfero australe. Le palline viaggiavano ben più veloci che a Wimbledon, a tratti dovevi controllare degli autentici proiettili! Mi piaceva giocare su quei campi, indubbiamente. Di certo, come avrai intuito da quello che ho appena finito di dirti, il passaggio dall’erba di Melbourne a quella di Londra era qualcosa che non poteva passare facilmente inosservato.

Brian, in generale consideri il tennis di oggi più noioso di quello che si giocava ai tuoi tempi? Voglio dire, giocatori che tirano delle autentiche bordate da fondo campo e vengono a rete a malapena per eseguire una voleè di finalizzazione e chiudere così il punto, ma proprio quando, e se, capita…?
“Noioso” non mi sembra il termine più appropriato… diciamo che l’evoluzione delle racchette e il passaggio dal legno alla grafite è il passaggio citato all’inverosimile, quanto più ovvio si voglia, ma fondamentale per capire che cos’è il tennis oggi. Omologazione delle superfici, OK, hanno dato una mano anche agli specialisti della terra battuta ma solo ad alcuni, perché molti di loro specialisti sulla loro superficie erano, e tali sono rimasti, dal mio punto di vista… poi, per fortuna, ti ritrovi in questa generazione di tennisti uno che di nome fa Roger Federer, e puoi sederti tranquillamente in poltrona oppure in una qualsiasi tribuna di un torneo ATP in cui gioca anche lui, e goderti il più grande spettacolo a livello sportivo a cui si possa assistere. Davvero uno stilista del gioco, un talento come ne nasce uno forse ogni cinquant’anni, anche ogni cento.
Un talento inimitabile nella storia di questo sport, e nello sport in generale. Fintanto che non si ritirerà, non ci sarà nessuno in grado di eguagliarlo nella generazione a cui lui stesso ha dato vita, tennisticamente parlando. Djokovic è un giocatore formidabile, altrettanto lo è Nadal, Murray è il nuovo numero 1 del mondo e con merito, ma nessuno ripeterà quello che ha fatto Roger per tutto il periodo in cui rimarrà ancora in attività. Per quanto riguarda le prossime generazioni, staremo a vedere…

Tu che sei stato un coach di successo, cosa pensi dell’attuale situazione del tennis americano? Non c’è nemmeno un giocatore americano tra i primi 10 del mondo, per fortuna vi “salvate” nel tennis femminile con le sorelle Williams, che però per quanto sempre temibilissime nonostante l’età che avanza, non sono eterne nemmeno loro…
Qualcosa sta cambiando. Vedo molti giocatori interessanti, Taylor Fritz, Reilly Opelka, che forse è quello su cui scommetterei più volentieri per il futuro anche se altri non gli danno le chance che gli dò io, Frances Tiafoe, Stefan Kozlov che ha già delle geometrie di gioco incredibili per essere un ragazzo così giovane…

Noah Rubin?
Non lo metterei sullo stesso piano degli altri che ho nominato, anche se non si può ignorare la sua vittoria al torneo juniores di Wimbledon nel 2014… comunque, per tornare a quello che ti stavo dicendo, oggi devi letteralmente fare a gomitate per conquistarti un posto tra i top players, c’è una competizione pazzesca… per carità, non che non ce ne fosse ai miei tempi, ma oggi è veramente una dura lotta per arrivare al vertice, o comunque, per affermarsi a livelli medio-alti o alti! Ho fatto il coach per diverso tempo dopo che ho lasciato lo sport professionistico, e ti posso dire anche che non è una banalità affermare che i giovani d’oggi sono molto più “coccolati”. Negli anni ’70, si prendevano borsa da tennis e valigia, si affrontavano dei viaggi impegnativi e snervanti, si dormiva in luoghi anche poco ospitali, magari anche cadenti e che igienicamente lasciavano un po’ a desiderare, si mangiava persino poco pur di non mangiare cose poco salutari per l’alimentazione di uno sportivo e tenersi quanto più possibile “in ordine”, ma oggi è tutto diverso. Ci sono certo dei tennisti che se la passano meno bene di altri, questo è sicuro, ma in generale, credo ci siano più agi e comodità di quanti non ce ne fossero allora…

Tornando a Taylor (Fritz), se le cose fossero andate in modo diverso, forse saresti stato tu suo padre, oggi, e lui si sarebbe chiamato Taylor Teacher…
Non mi piace parlare per “se” e per “ma”. La cosa tutto sommato strana, o buffa, è che la mia ex-moglie ha sposato in terze nozze Guy Fritz, ex-tennista professionista e mio buon amico, che è il padre di Taylor.

Conosci personalmente Taylor? È visto da molti come il tennista in grado di riportare in alto il tennis maschile made in U.S.A., e più di qualsiasi altro tennista suo compatriota, al momento…
Certo che ci conosciamo. È senz’altro un ragazzo che ha delle notevoli qualità dalla sua. Servizio potente, ottimi fondamentali, il suo fisico sembra già abbastanza formato per fare un salto di qualità imminente. Speriamo che tutto vada bene e che regga, perché nessuno di noi è indistruttibile, e viaggiare per giocare in giro per il mondo può diventare estremamente logorante, credimi… il problema di Taylor, se proprio ne devo individuare uno, è il contraccolpo psicologico che potrebbe subire da qui a qualche mese – se non l’ha già subito- visto che sua madre, la mia ex-moglie, sta divorziando da suo padre. Lui è già “adulto” per certi versi, il Tour ti fa crescere e alle volte anche troppo in fretta, ma tutto sommato è ancora un ragazzo. Non so come affronterà questa esperienza, che dev’essere a mio modo di vedere a dir poco traumatica, per un giovane di appena 19 anni…

Su cosa ti stai concentrando oggi? La Brian Teacher Tennis Academy?
Al momento la mia accademia non rientra nelle mie priorità, tant’è che vedrò se riesumare in qualche modo la mia attività di coach anche solo a livello locale, e ammesso che si creino le condizioni ottimali per farlo. Vedi, i giovani d’oggi, specialmente i ragazzini e i bambini, sono anche un po’ viziati… se dai un’occhiata al sito relativo alla mia accademia, www.brianteacher.com, ti accorgerai da subito che quello che ho cercato sempre e comunque negli ultimi anni, dopo che ho smesso di girare per il mondo al fianco di gente come Agassi, Rusedski, o Nestor, sono giocatori realmente motivati, pronti a fare dei sacrifici per migliorare il proprio gioco. Siccome negli ultimi anni non sono riuscito, se non in rarissimi casi, a trovare giovani giocatori e giocatrici che riuscissero a dedicarsi anima e corpo a migliorare il proprio tennis, oltre che ad ascoltare i miei consigli, ho pensato che fosse meglio distinguere il “coaching” dal “babysitting”! Ho dunque lasciato perdere, almeno fino a nuovo ordine, l’insegnamento di questo sport che mi ha dato così tanto. Ho una boutique a casa mia a Pasadena, le cose vanno bene per fortuna, ho due figlie e una moglie straordinarie, insomma… sono contento così!

È stata proprio tua figlia maggiore, Noel, ad avvicinarti ancora di più a quelle che sono le tue radici… tu sei per metà ebreo e per metà cattolico, e recentemente hai ricevuto il tuo Bar Mitzvah, sorta di “cresima” della religione ebraica che normalmente si riceve da ragazzi, anziché da adulti… Si ritiene che la religione abbia contribuito molto alle tue battaglie contro l’osteoartrosi (nota anche nei paesi anglosassoni con il nome di “osteoarthritis”) di cui soffri da anni, oltre che a quelle sul campo da tennis e in generale, nella vita di tutti i giorni… la ritieni una componente molto importante, o addirittura essenziale della tua vita?
Ho ricevuto il mio Bar Mitzvah se non altro per necessità di riconnettermi con quelle che sono le mie vere origini. Ma se ti dovessi dire in tutta sincerità se la religione occupa un posto importante o fondamentale nella mia vita, dovrei dire che, più che essere coinvolto totalmente da essa, oggi come oggi mi preme soprattutto il concetto di spiritualità, più che di religione. E lo yoga, disciplina che mi ha aiutato moltissimo per la mia osteoartrite/osteoartrosi di cui soffro dall’età di 19 anni, mi ha permesso di abbracciare una nuova filosofia di vita e raggiungere un più elevato grado di spiritualità.

Torniamo un attimo al tennis. Questa volta nelle tue vesti di coach di alcuni grandi nomi, da te appena nominati…
Comincerei ovviamente da Andrè Agassi, giustamente ormai affermatosi come un mito della sua generazione e non solo. Bravo ragazzo, persona umile, ma purtroppo ebbi la sfortuna di incontrarlo in un periodo veramente pessimo della sua carriera da professionista. “Resistemmo” insieme un mese o poco più nella primavera del 1992, appena prima che vincesse Wimbledon. Non stava bene e si vedeva, Offrii tutto quanto fui realmente in grado di dare a un ragazzo di una ventina d’anni che si sentiva frustrato, sfiduciato, confuso. Fui molto contento però, quando seppi che aveva vinto Wimbledon. Quella vittoria lo rimise in carreggiata, lo fece credere nuovamente nelle sue possibilità.
Mirnyi, anche lui serio e attento come allievo. Credo di avergli dato tra i migliori consigli che mi fosse possibile dispensare per essere ancora più incisivo nel suo gioco d’attacco, a seguire meglio a rete quel micidiale servizio che è da sempre l’ “arma letale” del suo gioco. Vederlo giocare ancora ad alto livello in doppio alla sua età mi fa molto piacere, se lo merita.
Daniel Nestor, penso ci sia poco da dire: un’etica di lavoro pazzesca. Ecco, quello è un altro ragazzo letteralmente nato per stare sul campo da tennis. Parlano, molto più delle mie parole, i fatti, cioè i risultati conseguiti da Daniel sul campo in tutti questi anni. Non puoi giocare a quel livello a 44 anni ed essere ancora a quell’età uno dei migliori doppisti al mondo in termini assoluti se non conosci la fatica, il sudore, il sacrificio. Nient’altro che un grande professionista.

E Greg Rusedski?
è quello di cui parlo meno volentieri. Giocatore che mi ha dato delle soddisfazioni quanto io spero di averne date a lui, visto che abbiamo lavorato insieme per un anno e mezzo a partire dal 1997, riuscendo nel non facile compito di portarlo dai bassifondi (ha proprio detto così! -nda) dei top 100, nei primi 5 giocatori del mondo, in posizione numero 4, per la precisione… buone qualità, servizio devastante quando era in giornata, ma carattere testardo, molto umorale. Persona difficile da gestire, e con cui rapportarsi era spesso un problema.

Progetti futuri, visto che il ruolo di allenatore sembra non allettarti più di tanto?
Come dici giustamente, sono stanco di vivere la mia vita “in a box” o “in a suitcase”, in una valigia, se preferisci, girando per il mondo. È già da parecchio tempo che ho abbandonato quella vita, e non rimpiango la mia scelta. La mia casa, la mia famiglia, la mia vita qui a Pasadena sono il mio “contenitore” o “scatola” ideale in cui vivere… al momento, sto lavorando insieme ad altri informatici e sviluppatori di app alla creazione di un’applicazione per iPhone, che credo sarà poi resa disponibile anche per Android e Windows Mobile, chiamata “Full Court Tennis”. Si tratta di un’app che permetterà di usufruire di un “coaching remoto” per il tennista di qualsivoglia abilità, che voglia portare il suo gioco ad un livello superiore. Mediante la registrazione video della propria attività sul campo e il successivo inserimento del filmato nel database ufficiale collegato all’app stessa, con un esiguo contributo economico, il giocatore avrà l’opportunità non solo di confrontarsi con altri giocatori e capire quali sono i suoi punti di forza e quali, invece, le sue debolezze, ma anche di ricevere consigli ed eventuali correzioni relative a stile, impostazione, movimenti, ecc. direttamente da me. Stiamo lavorando a questo progetto con estrema attenzione, onde non lasciare nulla al caso, ed altrettanta passione. Vedremo quando sarà possibile lanciarla.

Grazie dallo Staff di Oktennis.com, Brian.
A Voi per avermi riportato indietro nel tempo a quell’Australian Open 1980, e per la Vostra attenzione.

 

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