L’ombra della Brexit sull’alba di un nuovo Wimbledon

TENNIS – WIMBLEDON – Di DANIELE AZZOLINI. Sta ai Championships, per primi, declinare la Brexit in termini di sport, e non è compito facile. Brimbledon? Via, siamo seri… Mancano le giuste assonanze, e non migliorano davvero a forzare la mano… BrGrass, BrVolée, BrDjokovic?

Meglio non proseguire, anche per rispetto di chi insiste, a pochi giorni dal voto shock, che più delle assonanze sarà opportuno preoccuparsi delle convenienze. E delle conseguenze.

Eppure, proprio con la questione monetaria il torneone di Church Road dovrà fare i conti nei quindici giorni della nomination a “primo evento Brexit nella storia dello sport britannico”, cui i 375 facoltosi soci del Club (l’AELTC, obviously, All England Lawn Tennis Club), tutti aventi diritto a uno scranno nel Royal Box, avrebbero fatto volentieri a meno. Brexit come BrEuro in questo caso, e pazienza se il gioco di parole vi lascerà freddini. La questione non è di lana caprina, e il BrEuro appena lanciato sul tavolo tennistico, con la sua sinistra sonorità evocatrice di brividi finanziari, rischia di scontentare parecchio i giocatori. Tutti. Quelli che ne hanno di meno, e per una volta anche quelli che ne hanno di più. In sterline il montepremi dei Campionati sull’erba promette quest’anno due milioni tondi ai vincitori del singolare, maschile e femminile. Fino al giovedì del voto, i signori Novak Djokovic e Serena Williams (due nomi a caso?) erano convinti di portarsi a casa 2.478.206 euro l’uno e 2.755.269 dollari l’altra. Da venerdì, giorno della sconfitta dei “Remain” e delle Borse a picco, il gruzzolo si è ristretto rispettivamente di 370.321 euro e di 411.722 dollari. Il costo di un appartamento, nel caso li avessero voluti investire. E se il dato poco vi impietosisce (anche a me fa lo stesso effetto) forse vi renderanno più teneri i tagli agli assegni dei primi turni: 30 mila sterline, ieri 39 mila euro, oggi 34 mila, di cui il 50 per cento alle tasse, il 20 per cento al coach e non meno di tremila euro di viaggio e soggiorno.

Così come sono, le sterline renderanno felice solo Andy Murray, sir Muzza, da venerdì scorso a tutti gli effetti BrAndy, che di alcolico – almeno fino all’ultimo Roland Garros – aveva le tirate a base di insulti che indirizzava al suo angolo, dal quale mamma, moglie e amici avrebbero preferito fare finta di non conoscerlo. Scozzese, ma non si sa se Remain per valori tennistici (sport largamente internazionale, dunque fondato sull’integrazione, e da anni a guida comune) oppure Leave per cultura indipendentista, lui non l’ha voluto far sapere. Più il primo, verrebbe da dire di uno che non ha mai lavorato con uno Scottish Team, e non ha mai avuto l’indole di un Braveheart. Ma è lui il più atteso di questi primi Brexit Championships. Perché ha da poco richiamato coach Ivan Lendl e ha subito vinto (il quinto Queen’s), restituendo slancio alle speranze di quanti si oppongono all’assolutismo dispotico di Djokovic, giunto per la prima volta in carriera a metà Grand Slam (Australian Open e Roland Garros) e vincitore di cinque degli ultimi tornei Major. «Sarò io a impedirgli la conquista dei quattro Slam consecutivi», si è lasciato andare BrAndy, sostenuto dal silenzio assenso di Lendl.

Fuori Nadal per infortunio, dentro Federer da poco uscito dall’infermeria, Wimbledon si gioca sul dualismo finora a senso unico (quasi un ossimoro, ma ci sta) Djokovic-Murray e sulla crescita di ragazzini che finalmente fanno ben sperare, come Thiem, Zverev e Kyrgios. Fra le ragazze, Serena dovrà dimostrare di saper vincere ancora, e l’erba le verrà in soccorso. Altrimenti… Remain or Leave? Anche per lei sarà così.

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