Ace Cream / Francesca Schiavone, elogio di una combattente

TENNIS – Di DANIELE AZZOLINI. Dite, esiste qualcuno nel tennis, o nello sport, disposto a sostenere che la strada per le grandi imprese debba essere necessariamente ampia e ben asfaltata, senza asperità né improvvisi tornanti? 

E non sia preferibile, invece, percorrere uno a uno tutti quei saliscendi dell’animo, che suggeriscono continui mutamenti nelle proprie convinzioni, e invitano a fare i conti con i più improvvisi recessi del proprio spirito? Se tali domande hanno una risposta, è probabile che Francesca Schiavone se la sia già data, quando sostiene che, in fondo, «così c’è più gusto». Difficile escludere a priori che nell’antica Leonessa, oggi trentacinquenne, prima Slammer italiana e donna d’alta classifica (fu numero 4, dopo la vittoria al Roland Garros del 2010) non alberghi qualche grumo di masochismo, lei che ha spesso combattuto con se stessa per forgiare il meglio del suo tennis, ma non v’è dubbio che le facciano onore questi aneliti da tennista di ventura con cui affronta gli anni che passano e le prospettive che si restringono. È una che dà battaglia, Francesca: lo fa con il tennis, con la vita, con i suoi stessi convincimenti, che cambiano e si modificano senza l’angoscia di mostrarsi tutta d’un pezzo, ma persuasa che vi sia intelligenza nel rinnovare spesso i suoi punti di vista. È così che oggi la troviamo, impegnata nuovamente ad allargare e forzare di sua mano quelle “prospettive che si restringono”, per adattarle agli anni che sono trascorsi, alla classifica che non è più la stessa, alle delusioni che le sono giunte da un tennis troppo insensibile, e alla sua volontà di non venire mai meno al proprio entusiasmo. Al punto che, nell’anno da tutti previsto come quello del passo d’addio, lei risponde con l’energia di una ventenne: «Smettetela di chiedermelo, una come me non si ritirerà mai». E vince a Rio, da numero 132 della Wta (prontamente risanato dall’attuale 94) il suo settimo titolo. Il più inatteso.

E dunque, «c’è più gusto», ma esattamente in che cosa? Non è difficile comprenderlo. Chiunque si trovi a cadere dal quinto piano, e finisca la sua discesa miracolosamente in piedi, sul marciapiede di sotto, per essere stata capace di frenare la picchiata, lì aggrappandosi a un cornicione, là a una finestra, per poi agguantare una tenda e su di essa scivolare fino al selciato, chiunque, dicevamo, ha il buon diritto di dire «così c’è più gusto». Spirito di sopravvivenza. Francesca ne ha in forma industriale. «Sono pronta a riprendere il mio zainetto», diceva, «quello dei primi anni tennistici, con cui me ne andavo girando per piccoli tornei, e rifare da capo quelle esperienze». E a chi l’ascoltava allibito, replicava così, senza attendere ulteriori domande: «Vedete, ci sono due modi per fare i conti con me stessa, ora che la frustrazione di tante partite perse si fa sentire e sono costretta a navigare in acque lontane dagli approdi cui ero giunta. La prima è chiedersi chi me lo faccia fare. L’altra, la mia, è darci dentro, per tornare a sentire in campo quelle emozioni che mi fanno sentire in pace con me stessa. La battaglia, il gioco, il sudore, la stanchezza».

È di nuovo la Schiavone che il pubblico applaude, convinto, divertito. Ma la delusione agli Open d’Australia è stata grande. Non le hanno dato la wild card che si aspettava, e nessuno ha capito il perché. Francesca, il pubblico di Melbourne se la ricordava bene. Una battaglia con la russa Kuznetsova, di qualche anno fa, è ancora in cima alla lista dei record, per numero di game e per minuti trascorsi in campo. E poi, in Australia apprezzano chi sa giocare, e non c’è alcuna in campo femminile che abbia il tennis di Francesca, nemmeno oggi. Ma in quei giorni lei era la numero 115 del mondo… Ci ha provato con le qualificazioni, e non le ha superate. Così il suo record sospirato di presenze consecutive nello Slam si è fermato a 61 tornei, uno in meno della Sugiyama che fu sua amica e rivale. Un peccato. Nei pensieri di Francesca c’era la sessantaduesima presenza a Melbourne e la sessantatreesima a Parigi. Poi sarebbe tornata ai suoi tornei minori, zainetto in spalla, fino al termine della stagione. L’ultima? Chissà…

«È arrivato il momento di ricambiare il tennis per quanto mi ha dato in questi anni», sussurra. La sua Academy sta già prendendo forma, ed è anche per questo che oggi, Francesca, spavalda, può permettersi di dire che non si ritirerà mai. «Da qualche tempo mi capita di osservare le mie avversarie, le giovani soprattutto. E al di là del fatto che mi possano battere, mi rendo conto degli errori che stanno commettendo. Forse, senza volerlo, sto già cambiando, sto diventando un’insegnante. Ecco, mi piacerebbe trasmettere ai ragazzi tutto ciò che ho imparato in questi anni. Credo di sapere come consigliarli».

Francesca è del 1980, cresciuta con la federazione di prima, come Pennetta e Vinci. Flavia si è ritirata. Roberta aveva annunciato che questo sarebbe stato il suo ultimo anno, ma forse ci ripenserà e ne aggiungerà ancora uno. Lei no. Quando sarà il momento, scivolerà via dal circuito continuando a fare tennis sui campi della sua accademia. È in buona compagnia: Venus Williams ha sei giorni più di lei (17 giugno, 23 giugno), Serena è del 1981, Federer lo stesso. Grandi annate. Atleti senza tempo. «Aziende intelligenti», li definisce coach Riccardo Piatti, oggi alla guida di Raonic, numero 11, «sanno di rappresentare un prodotto unico, e hanno creato staff molto accurati, che hanno il compito di mantenere quel prodotto il più a lungo possibile sul mercato del tennis. In altre parole, i tennisti investono i guadagni sul loro stesso mantenimento. Così facendo prolungano la carriera ben oltre i confini cui eravamo abituati. Ed è per lo stesso motivo che c’è meno spazio per i giovani». Analisi intelligente. Se però vi aggiungete l’entusiasmo incontaminato, la voglia di mettersi in discussione, l’amore per la sfida, avrete una ricetta speciale. Quella di Francesca Schiavone. 

 

 

 

 

 

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