Challenge Round. Murray, “one week in Bangkok”: dieci anni fa prima finale e top 100

TENNIS – DI FABRIZIO FIDECARO – Sono trascorsi giusto dieci anni da quando Andy Murray raggiunse la sua prima finale Atp, ceduta con onore a Roger Federer in quel di Bangkok, e irruppe fra i top 100 del ranking mondiale.

“One night in Bangkok”, cantava nel 1984 l’artista britannico Murray Head. Un paio di decenni (abbondanti) più tardi “one week in Bangkok” segnò in modo indelebile la carriera del suo connazionale tennista Murray… Andy. Già, perché esattamente dieci anni or sono, il 3 ottobre 2005, l’attuale numero 3 del mondo fece breccia per la prima volta fra i top 100 del ranking Atp, e ciò accadde in seguito a un’altra prima volta, la finale numero uno nel circuito maggiore, raggiunta e persa nel Thailand Open con Roger Federer.

L’allora diciottenne speranza britannica, che figurava ancora oltre il 500esimo posto nel dicembre precedente, stava rapidamente scalando la classifica. La sua ascesa, in una stagione cominciata solo nel mese di marzo per problemi fisici, era partita tra Challenger e Future (con le semifinali a Cremona e a Lleida), per poi segnare una decisa impennata a giugno, sull’erba di casa: qui Andy raggiunse il terzo turno sia al Queen’s Club di Londra sia a Wimbledon. In particolare, a Church Road, liquidò in scioltezza Radek Stepanek, all’epoca n. 13 del ranking, e si portò avanti di due set con David Nalbandian, subendone però l’imperiosa rimonta. Tra luglio e agosto i titoli conquistati con grande autorità nei Challenger di Aptos e Binghamton, da una costa all’altra degli States, seguiti dai secondi turni a Cincinnati e agli US Open.

Alla vigilia del torneo di Bangkok Murray occupava la posizione numero 109 della classifica. Ormai l’ingresso fra i top 100 era solo questione di tempo, e il talento di Dunblane non aveva alcuna intenzione di perderne. All’evento thailandese fu ammesso in extremis grazie a una wild card, inizialmente destinata – guarda caso – al connazionale Tim Henman, costretto a rinunciarvi per infortunio. Andy batté in due set George Bastl e Robin Soderling, per poi recuperare un set sia nei quarti allo statunitense Robby Ginepri sia in semi al beniamino di casa Paradorn Srichaphan.

Nel match clou ad attenderlo trovò un Federer già sovrano del tennis da quasi due anni e a caccia dell’undicesimo centro stagionale, ma non sfigurò affatto. Cedette solo con il punteggio di 63 75, dopo aver messo più volte in difficoltà il fuoriclasse di Basilea, e avergli anche recuperato un break iniziale di svantaggio nel secondo set. Anche in finale, come attestò il sito della BBC, Murray continuò “a mostrare rapidi miglioramenti e una scelta di colpi matura, alternando lo spin con la potenza”. Andy, però, puntava già allora al massimo e il volto deluso durante la premiazione la disse lunga su quali fossero state le sue aspettative, persino nelle vesti di outsider dinanzi all’indiscusso numero uno del mondo.

Il giorno dopo il ranking Atp lo vide issarsi di colpo al 72esimo posto. Un’ascesa proseguita senza soste: nel 2006 l’approdo fra i primi venti, nella primavera successiva l’assaggio della top ten, conquistata stabilmente dal 2008 in poi (con la sola eccezione di qualche settimana l’anno scorso), e un career high in seconda posizione. In bacheca due Slam, US Open 2012 e Wimbledon 2013, e la medaglia d’oro nel singolare olimpico vinta ai Giochi di Londra. E a novembre, con la finale di Coppa Davis, potrebbe arrivare un ulteriore tassello di gloria.

Un palmarès invidiabile, seppur limitato dalla presenza contemporanea nel circuito di tre fenomeni quali Federer, Nadal e Djokovic. Murray  stesso a suo modo lo è, e non a caso è annoverato da tempo, assieme ai tre sopracitati, tra i cosiddetti Fab Four della racchetta. Forse avrebbe potuto vincere di più – le conclusioni al riguardo le trarremo tra qualche anno – ma di certo anche lui ha mostrato fin da ragazzo le stimmate del predestinato. Come attestò alla perfezione quella settimana lungo il Chao Phraya, il “muddy old river” (“vecchio fiume fangoso”) citato nel brano dell’altro Murray…

 

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