Foot Fault: Federer e quelle lapidi che non esistono (nel tennis e non solo)

TENNIS FOOT FAULT – Fortunatamente i giornalisti sportivi non devono pagare multe salate per previsioni errate, sentenze strampalate e “necrologi funebri” ad atleti ancora perfettamente aventi attività celebrale, cardiaca o quant’altro, perché altrimenti, tra calciomercato e Roger Federer, signori miei, la categoria sarebbe ancora più in disgrazia di quanto non sia già. Tutti noi scribacchini del tennis, chi più chi meno, ha almeno una volta scritto l’epitaffio sulla (presunta) tomba dello svizzero. Il mio personale è stato dopo la sconfitta contro Robredo, agli Us Open. In tutta franchezza, chi vi sta tediando con queste parole scritte in una freddissima domenica di marzo, non avrebbe mai creduto ad un ritorno del genere. Sia chiaro, non è che ora Federer sia tornato ad essere il miglior giocatore del mondo o quello del titanico dominio 2004-2007, ma una cosa è sicura: finito, lo svizzero, non lo è. Nè tantomeno morto e sepolto.  E tutti, per primo io, dovremmo felici di esserci sbagliati.

 Durante la semifinale di Dubai, mentre Roger dava lezioni di tennis a Djokovic (un buon Djokovic, ovviamente non il migliore ma sempre un buon Djokovic),  mi è venuta in mente una frase del leggendario (anche lui) Bufalo di Romanzo Criminale. Durante uno dei suoi ultimi colloqui in carcere con il Freddo, il malavitoso più squinternato dei serial tv italiani disse: “A Frè, a banda era morta da tempo, ma tu c’hai messo a lapide”. Ecco, questo mi ha ricordato un po’ quello che abbiamo fatto noi con Federer, tra un passante di rovescio in corsa (!!!) e una rasoiata, tra un dritto e un passante, tra una magia e un’altra. Perché, direte voi? Federer non era mica morto, lo abbiamo detto un secondo fa. Dunque, non c’era nessuna lapide da mettere. Bene, il punto è proprio questo. Tutti noi, appassionati, giornalisti, addetti ai lavori e così via, dovremmo smetterla di mettere lapidi a destra e a manca quando qualcuno è ancora tra di noi.

 Adesso, il paragone potrà sembrare alquanto lugubre, e fortunatamente stiamo parlando sempre di eventuale morte sportiva e non metafisica. Perché quella, la seconda che ho detto, non serve colpirla nel cuore, tanto la morte mai non muore. Federer si dà per morto o presunti tali dal 2008 o giù di lì. Per la prima volta dopo la finale di Wimbledon persa contro Nadal. Lì per la prima volta il mondo ha scoperto che il numero uno del mondo in fondo in fondo non era immortale. E queste teorie negli anni, col passare degli anni dello svizzero, ovviamente si sono ingigantite. Fino al 2013, quando le lapidi si sono moltiplicate a dismisura. E per la prima volta, sinceramente, si vedeva anche il cadavere.

 Il dubbio rimane tutto, però. Qual è il motivo di mettere lapidi a destra e a manca, la maggior parte delle volte senza motivo? Soffriamo della sindrome di Spoon River? Siamo troppo eccitati dall’essenza stessa del trapasso come sintomo di una morbosità che ormai ci assale? Niente di tutto questo. Abbiamo paura, semplicemente paura.

Di non vedere più in azione, in campo, uno come Federer. O come Totti, o come Del Piero, o come tutti i grandi vecchi dello sport. Perché semplicemente con loro, chi più chi meno, ci siamo cresciuti, soprattutto quelli che hanno trent’anni o giù di lì. E quando un grande di ritira, appende le scarpette o la racchetta al chiodo, ci sentiamo tutti più vecchi, più “mortali”, più vicini alla fine di un qualcosa, anche astratto. Andremo avanti lo stesso, ma entreremo (anzi, siamo già entrati), nella frase del “Mi ricordo, si, io mi ricordo di…”. Mettiamo in continuazioni lapidi perché semplicemente non vogliamo farci trovare impreparati quando quella lapide ci sarà per davvero. E ci sentiamo soli, più soli, tanto soli.

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